Ci sono dei versi di una poesia di Chantal Maillard in cui si legge: “Mi chiedete parole che consolino, / parole che confermino / le vostre ansie profonde / e vi liberino / da angosce permanenti”. Ma è davvero la consolazione la cosa principale che si richiede alla letteratura? Davvero la qualità fondamentale di un testo deve essere quella di portare sollievo a chi si sente in qualche modo oppresso? Nell’etimologia ebraica il termine che sta per “consolare” proviene dalla radice “nhm” che significa anzitutto “respirare profondamente, gemere” e, nel senso causativo, “far respirare, far tirare il fiato in una situazione di paura o di dolore”. Nella radice ebraica della parola dunque la consolazione si esprime attraverso un atto di natura fisica, intimamente collegato all’esercizio della respirazione, la quintessenza vitale dell’essere umano. Spesso si sente dire dai lettori che quel testo è piaciuto tanto per la sua capacità di entrare intimamente in connessione con la nostra dimensione dell’inesprimibile, o perlomeno di qualcosa che sentivamo presente in noi ma che non eravamo capaci di rappresentare o anche solo pronunciare. La capacità di un testo letterario di dare nome all’inesprimibile, a quanto pare, è di per sé consolatoria. Vi è qualcosa di sovrumano in questa attitudine, qualcosa che richiama i grandi concetti della religiosità. Stig Dagerman, lo scrittore svedese morto suicida e autore, tra l’altro, di un monologo dal titolo Il nostro bisogno di consolazione, ha scritto: “Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui io dubito o sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero me stesso, perché di una cosa sono convinto: il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto”. La letteratura, dunque, come la religione, avrebbe unicamente il potere di alleviare le umane oppressioni, dove muoiono spazi deserti di anima lì c’è una parola, il racconto dei più bei giorni o delle più belle notti, così che anche la più buia delle angosce dell’uomo abbia il suo nome.
Chantal Maillard, da Hilos
Mi chiedete parole che consolino, parole che confermino le vostre ansie profonde e vi liberino da angosce permanenti. Ma io ormai non posseggo parole come queste. Accettate il mio silenzio: il meglio di me. Fuggite il soffio che pronuncia, sulla mia bocca, l’amara condizione dell’umano. E, intanto, lasciatemi contemplare il volare dei panni appesi alle finestre.