Ieri sera non mi sono sentita a casa. Non è stato nient’altro: sono arrivata, mi sono seduta al primo tavolo libero ed ero una sconosciuta. L’Ostello l’ho sempre visto un po’ come casa mia. Del resto, lì è cominciata tutta la mia vita che conta.
Lì ho scoperto che avevo delle amiche per la vita, le Dears, lì ci ho portato Èsolounamico quando avevo bisogno di bere e parlare, lì mi sono resa conto che alla gente piaceva leggere i fatti miei. Ve lo ricordate MisterCameriere2008, vero? Quattro anni, una vita. Per i lettori più recenti, agevolo riassunto: DearLowe compiva diciott’anni, all’Ostello. Era bello, laggiù nella grotta con le sedie e il fiume in mezzo. Stavo scherzando non mi ricordo con quale delle mie compagne di classe ed è passato lui. Faceva il cameriere, aveva gli occhi blu e secondo me era bellissimo. Ogni giorno, per svariati mesi, io e le Dears eravamo sedute a un tavolo dell’Ostello, a bere vino bianco della casa, giocare a carte, e a sentirmi sospirare per il mio bel cameriere tenebroso. Fu la cotta non ricambiata più raccontata del web, o quasi.
All’Ostello ho festeggiato patente, concorsi vinti, esami di maturità superati e primi lavori. Ci ho portato il Parolaio, una sera. Ci ho incontrato Monsieur Déjà vu. Avevamo passato la serata all’Ostello, una serata terribile, con gli amici miei e gli amici suoi perché uscire da soli non ci sembrava il caso. A un certo punto, ci siamo alzati e siamo andati in bagno. Siamo rimasti via per mezz’ora: ci siamo fermati a leggere i livelli di alcol nel sangue consentiti e, non so come mai, li trovavamo esilaranti. Forse perché li avevamo superati abbondantemente. Poi siamo tornati dagli altri, e quando stavamo per salutarci lui s’è voltato, ha lanciato le chiavi della sua auto al suo amico biondo che odiavo, e gli ha detto: «Vai a prendere la macchina, io accompagno LaCapa alla sua e arrivo». Lo fece, poi mi spinse sulla portiera anteriore e mi baciò. Quasi un anno dopo, all’Ostello, scoprii che lui non aveva più voglia di baciarmi.
Durante una lunga e triste serata all’Ostello, Dearfriend Ballerina e Miamiglioreamica scoprirono di dover cambiare sogni nel cassetto. Qualche giorno dopo, allo stesso tavolo, la mia amica danzante comunicava alla compagnia che lei lasciava Catania per trasferirsi a Milano.
Quando il direttore dei miei sogni del quotidiano dei miei sogni mi telefonò, andai a festeggiare all’Ostello. All’Ostello mi sono presa le sbronze più pesanti e ho fumato le canne più buone. E c’ho anche passato le serate più sobrie, semplici e felici della mia vita. È il mio posto dei primi appuntamenti, dei brindisi in compagnia e di qualunque festeggiamento.
È l’unico locale che mi mancava a Edimburgo, mica poco.
Se dovessero chiedermi qual è il primo posto che andrei se non sapessi dove altro cercare volti conosciuti, risponderei l’Ostello. Credo di poter fare almeno una ventina di nomi di persone che, non fosse stato per me, quel posto non avrebbero mai nemmeno saputo che esisteva.
Ieri sera dipendenti vecchi e nuovi mi passavano accanto portando pizze a tavoli pieni di fighette con i tacchi, le gonne corte e le parigine senza collant sotto. L’Ostello non è mai stato un posto da pizza, né da patatine fritte, per dire. Ci si beveva e basta, e se volevi la Cocacola dovevi cambiare locale. E non ci sono mai state le fighette con i tacchi, le gonne corte e le parigine senza collant sotto. Forse solo di lunedì, ma il lunedì (giorno più affollato, all’Ostello) è anche il mio giorno di ferie dalle bevute nei locali.
Aspettavo le Dears, sempre in ritardo, e non sentivo odore di erba. All’Ostello c’era sempre odore di erba. Vedevo comitive di amici vestiti bene, venuti a mangiare qualcosa. Notavo pochi jeans e tanti pantaloni, nemmeno uno coi capelli rasta, neanche una kefiah. Non c’erano radical chic simil-comunisti. C’erano persone normali, come in qualunque altro posto. Mancava l’identità e io non sapevo ritrovarla. Io che vado all’Ostello in tuta, io che ordino sempre vino bianco della casa, una bionda media, una Super Tennent’s oppure una Poretti grande, grazie, con un sacco di salatini.
Non era più casa mia. Non mi sentivo più in diritto di alzarmi e andare a prendere il posacenere senza chiedere, né di spostare la stufa a fungo verso il mio tavolo, per non morire di freddo. Non è che sia cambiato qualcosa, la struttura è sempre uguale, la gente che ci lavora più o meno anche. È cambiata la percezione. E io mi sono sentita un’estranea in casa mia.
Poco dopo la mezzanotte me ne sono andata. C’erano un sacco di automobilisti che cercavano dove posteggiare. Non ho sentito nemmeno un po’ di musica reggae venire dalle loro macchine.
Mi hanno sfrattata, sono stata buttata fuori dalla gente altra, normale. Non la trovassi una cosa così triste, mi prenderei perfino la briga di sentirmi tradita dal tempo che passa.