Mi riconosci è – come tutti gli altri di Andrea Bajani – un réportage dell’animo. Libri che sfuggono all’etichetta di genere (romanzi brevi? novelle? racconti più o meno lunghi? memorie? saggi?) e che – se da un lato accentuano la loro vocazione a raccontare il dolore del mondo (attraverso il filtro di una prospettiva universale che si fa anche fiction) – dall’altro tradiscono una scrittura violentemente idiosincratica, ferocemente individuale. Erano stati così Domani niente scuola, Ogni promessa, Cordiali saluti e Se consideri le colpe. Lo è ancora di più questo ultimo, nel quale la voce narrante e protagonista (autodiegetica, e con tratti più o meno esplicitamente autobiografici), come in Domani niente scuola, si colora dichiaratamente di tratti personali dell’autore. Le parole, poi, servono a parlarci di Antonio Tabucchi: scrittore amico (ironicamente maestro?) di Bajani, morto a Lisbona, per un cancro, il 25 marzo del 2012.
Bajani – con espliciti riferimenti allo stile di Tabucchi – ripercorre il filo di un’amicizia intellettuale singolare ed elettiva, partendo dall’inumazione, quando l’intero appartamento di Lisbona sembra convergere in una “scatolina in legno chiaro”, piccolissima, che riassume, per metonimia, la vita dello scrittore come saltibanco, quasi che anche l’ultimo saluto possa essere considerato un numero da artista impertinente: “e ti sei tolto il cappello, hai fatto un inchino e sei andato via”.
Comincia così, a ritroso, letteralmente dalla fine, il viaggio di Bajani dentro la sua propria mancanza. Un’assenza fisica dello scrittore Antonio Tabucchi dal mondo che si fa, però, per lo scrittore giovane, rimasto indietro dentro il mondo, la presenza, altrettanto fisica, del lutto – che pervade, sottile e strisciante, lo spazio, i luoghi, i tempi, e dunque anche le sue parole. Il punto di vista, il più personale e idiosincratico, si fa proprio per questo dialogo: dopo appena poche righe, fin dal primo capitolo, la voce dell’io narrante sfocia nella seconda persona singolare.
Attraverso ventidue capitoletti brevi e un “Dopo” che fa epilogo, la scrittura ripercorre episodi significativi di un legame che è arrivato per letteratura e un po’ per caso (un incontro a Parigi nel quale lo scrittore giovane, saputo dell’interesse di Tabucchi, semi-forza la mano allo scrittore più vecchio) e prosegue per scelta, attraverso uno zig-zag di passeggiata sulla linea dello spazio e del tempo in cui Bajani è maestro, proponendo al lettore – al quale fa il dono della condivisione del suo lutto – di seguirlo tra Parigi, Vecchiano, Lisbona. Nel mezzo, la malattia, quella che ti consuma dentro. Che Bajani descrive con una crudeltà oggettiva che fotografa il fatto, per esempio nelle pagine in cui mette di fronte, separati da un corpo che si sfalda, che è già morte, il malato e il testimone. La scommessa, forte, eppure a suo modo semplicissima, è quella offrire il ricordo (ancora una volta: letterario – eppure rigorosamente privato) di un personaggio pubblico – un modo per ricordare a tutti che quella che il mondo percepisce semplicemente e banalmente come “perdita” (del grande intellettuale, dello scrittore raffinato, del personaggio), è, per chi sa, molto più che mancanza: presenza dell’assenza, pieno di vuoto.
Un tema difficile; oppure, il tema per eccellenza: e proprio per questo raccontato con la consapevolezza compunta (nella quale Bajani è maestro) di una condivisione cosmica, a ricordarci che, sola, è la morte l’unica, irreversibile, sorgente di ispirazione per l’intelletto umano.
Con questa recensione la ‘povna partecipa di nuovo, dopo un’assenza forzata e troppo lunga, al venerdì del libro di Homemademamma.