MIA, Milano Image Art Fair è arrivata al terzo anno e ha fatto il bagno di folla, con circa 7000 visitatori al giorno durante la settimana ed un picco oltre i 10.000 per sabato e domenica. Gli espositori erano 230, con artisti provenienti da 16 paesi, raccolti al SuperstudioPiù di via Tortona su una superficie di 8.000 mq.
Accanto a loro, una vasta area dedicata all’editoria, uno spazio di per le presentazioni editoriali, il book signing, l’Angolo del Collezionista, la sezione di opere firmate a quattro mani da artista e stampatore, il Codice MIA , il Dummy Award e numerosi dibattiti.
I visitatori sono stati davvero tanti, schiacciati nello spazio troppo ristretto degli stand, e le vendite per alcuni sono andate bene. Come nel caso di Liu Bolin, l’artista cinese che scatta autoritratti fotografici mimetizzandosi coi luoghi d’arte, molto venduto dalla Photo&Contemporary, che in pochi giorni ha piazzato Ponte Sant’Angelo, Tempio di Apollo, Via dei Misteri, il bellissimo Via della Fortuna e Sala della Ragione.
Si è visto un po’ di tutto, alcuni artisti hanno colpito per la loro bravura. Su tutti, l’australiano Bronek Kozka, finalista II edizione del premio Bnl con The sunshine house, seguito da un’opera corollario: i primi piani di tutti i personaggi visti nell’opera principale: The father The mother, The son e The other. Kozka ci sa fare anche con altre tematiche, seppure la sua attenzione sia principalmente indirizzata ai reietti australiani e a scenari borderline e legati alla povertà. Si veda Home time e The chef. Le stampe sono tutte c-print on d-bond, ed espone per VisionQuest.
Hanno colpito le moderne ex voto di Natale Zoppis che in cornici di cartone e domopak ha racchiuso foto di denti, capelli e varie parti del corpo. Il corpo era centrale anche per Raffaello de Vito, che li ha sezionati ed esposti: teste, mani, piedi, anche di bambole (cosa e vero e cosa no?) in teche di vetro: e, lì, perfettamente nitidi, piedi con calli, punti neri, herpes, ammassi di capelli, occhi chiusi o aperti, cuperose, peluria. Anche Matteo Attruia concede la sua attenzione al corpo. Il suo. Ritrae se stesso travestito: Hitler, i Beatles, Angela Merkel, Peter Falk ed è credibilissimi Frank Zappa, Freud o Madre Teresa; gli spagnoli Pilar Albajar e Antonio Altarriba ritoccano i ritratti fatti giustapponendo musi di animali. Abbiamo quindi il lupo che bacia/ morde /mangia la pecora in La pasion, o i pipistrelli vescovi in La religion. Si tratta di immagini su fondo nero dal grande valore simbolico, finalizzate alla critica/rappresentazione delle tirannie.
Vincen Beeckman ha portato le sue serie ironiche sulle persone comuni, Guido Harari ha i suoi famosi ritratti di star: Peter Gabriel, Patti Smith, passando per Leonard Cohen, Tom Waits e Faber.
Ottimo lo spazio dedicato a Ruth Orkin (di cui è presente anche I giocatori di carte) e, in un angolo, per terra, si è scovato un Annie Leibovitz. Celebrità anche quelle ritratte da Ugo Mulas (spettacolare la sequenza su Alberto Giacometti che riceve l’annuncio di aver vinto il gran premio xxxi Biennale di Venezia nel 1962), rese enormi dalla capacità del fotografo di indagare nei loro cuori, a volte anche bluffando, come per Lucio Fontana al lavoro (opera in realtà posatissima), ma anche catturando la bellezza dei luoghi e la spontaneità degli eventi come nel caso della serie ambientata al Bar Giamaica. Infine, i ritratti fatti a Bob Dylan tra il ’61 e il ’65 da Joe Alper.
Marc Lagrange ha portato una interessante High pristess e il sarcastico Snowhite, nudi femminili che fanno ridacchiare, mentre Pietro Mollica ha ritratto l’essere umano annegato in spazi giganteschi, proprio il contrario di ciò che fa Alexander Gronsky con i suoi pastorali, dove lo spazio accoglie l’uomo, che è, sì, piccolo ma che sembra essere parte integrante del quadro.
Ci sono poi i ritratti magici di Maggie Taylor, infestati dal Bianconiglio, da pesci che volano, da ninfee e da farfalle. La fotografa ha lavorato con la serie Ghost Whisperer, e lo stile è in effetti il medesimo, come si vede in Man in his own world, Threee trees o Two rabbits.
La fotografia di paesaggio era ottimamente rappresentata: c’erano gli ambienti della zona del Vesuvio, con colori ipersparati, dove, in mezzo alla natura e alle piante, emergono le case abusive, a volte solo scheletri, altre veri e propri grattacieli, in cornici dorate tonde. Poi ci sono le foto di Iris Hutegger,che viene voglia di toccare: paesaggi montani in bianco e nero su cui l’artista ha cucito decorazioni colorate, col filo di cotone, come fossero una nuova flora, che mischia rosa e verde, creando ragnatele sulle montagne e rossi di sangue attorno alle pietre.
Leandro Quintero porta grandi quadri minacciosi ritraendo residuati industriali (La puit) o luoghi abbandonati (Fantasia rosso). C’è persino una chiesa abbandonata e piena di detriti (Octo). L’uomo è assente, estinto, restano le cose che ha costruito, e sembrano minacciose. Non poteva mancare, in tema di fotografia di grandi spazi disabitati, Francesco Jodice, con la sua enigmatica serie What we want, di cui fanno parte Bethlehem, Aral, Death Valley, Osaka e Normandy: paesaggi sognanti, bianchissimi, ordinati, perfetti, in cui i rari uomini presenti sono sassolini e davanti ai quali lo spettatore si sente piccolo.
Quindi Giovanni Chiaramonte con le sue luci di mezzogiorno, Fabrizio Ceccardi che fa un montaggio di luoghi immobili in un tempo senza eventi, il giallo di Misiar Mokhtari, i quadri tenebrosi di Massimo Gatti (Insonnia e The storm on Bangkok). Il sud est asiatico ha attratto anche Alec von Bargen che ha ritratto il corso del Mekong, con immagini quasi gialle, centrando l’attenzione sugli oggetti dispersi nel fiume, tra Vietnam e Birmania, tra pali, palafitte, zattere e battelli, suggerendo malinconia e abbandono nella sua serie Confession from the still.
Andrey Belkov ha portato al MIA foto di oggetti quasi soprannaturali come in Alien’s boat o Blue and white stripes: gli oggetti si diffondono e si confondono in un lucore acciecante con ciò che li circonda che svanisce, si schiarisce e si ghiaccia.
Ci sono poi i quadri monumentali di Massimo Listri: ordinati, puliti, disumani. Sedie esattamente in fila, colonne che creano prospettive grandangolari, soffitti quasi disegnati. Una perfezione soffocante. Lo si accosta in un certo modo a Andrea Rovatti (in Via Cusani, Palazzo Contarini del Bovolo, Urban texture, Via Forcella) ci dona la vertigine della prospettiva, accostando scale a scale accostate e balconi montati con balconi, in toni tenui e delicati, con la permanente sensazione di essere un po’ storti, e una leggera vertigine.
Imperdibile Riccardo Varini le cui immagini sembrano olii, con un grande senso del colore, un atteggiamento minimalista, il tutto con tecniche naturali, perché il fotografo non usa Photoshop. Da vedere la serie Silenzi, e restare ammirati dalla maestria di Varini nel ritrarre la neve. Simili atmosfere propone Pierre Pellegrini, che immortala casolari immersi nella foschia, con il sole che filtra tra gli alberi e le strade infangate. Esemplificativa è la stampa su carta cotone Teneramente insieme.
Notati ed apprezzati anche Gianni Berengo con le fotografie d’epoca 8anni 50) stampate ai sali d’argento, da cui emergono un grande senso di composizione, di ordine e di armonia (ci sono anche alcune chicche, come la Battersea Power Station di Londra funzionante nel ’77!), Patrick van Roy, che crea composizioni con schede madri di pc, pastasciutta e Barbie, quindi gli alberi di Marian Venzetto, tutti in bianco e nero, spugnosi, irreali, a volte umidi, altre secchi, sempre vissuti come organismi viventi.
Susanna Majuri ha portato la sua serie di immagini scattate attraverso l’acqua, in cui si mostrano situazioni misteriose e sognanti, mentre di tutt’altra pasta, ma sempre misterioso è sognante, è il coreano Bae Chan Hyo, che ricostruisce ambienti e costumi settecenteschi in situazioni ambigue e attuali. Usa solo modelli coreani (e certamente crea un senso di vertigine vedere un coreano abbigliato da Re Sole) facendo ampio ricorso al travestitismo e flirtando con il truculento. Infatti, la modella protagonista di ogni posa è sempre lui, mentre attorno imperano sangue e morte. L’artista fa un attento lavoro sulla postura e sul costume e propone opere di grandi dimensioni e di colori scuri.
Rune Guneriussen (dalla Nornegia) porta luminosissime fotografie – anche qui molto grandi – di paesaggi naturali presi d’assedio da lampade e abajour accese. Il risultato è – ovviamente – luminoso e straniante. Dmitry Provotorov fotografa dinosauri giocattolo alle prese con la vita di tutti i giorni, mentre si confrontano con la Statua della Libertà, la testa di Bart Simpson, gli occhiali da sole e le Barbie, in stampe bianco e nero in stile vintage.
Un’edizione molto interessante del MIA, ricca di chicche, di piccoli capolavori sconosciuti, godibile, interessante. Un lavoro ben fatto.
Written by Silvia Tozzi
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