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«Mica mi mangia» (Io nun ce l’ho co’ te / 3)

Creato il 01 giugno 2012 da Malvino
1. È già accaduto qualche mese fa, a febbraio. In quell’occasione fu Sergio Romano. Scrisse: «Particolarmente contraddittorio mi sembra il digiuno dei radicali. Sono certo che non vogliano trasformare la politica interna in un campo di battaglia, ma così accade, di fatto, quando un uomo politico minaccia di usare il proprio corpo come un’arma letale e si dichiara pronto a morire pur di raggiungere il suo scopo. Se la politica democratica è lotta senza spargimento di sangue, questa, spiace dirlo, non è più democrazia. Naturalmente lo sciopero della fame non ha nulla a che vedere con il terrorismo suicida perché non minaccia altre vite. Ma anche nel digiuno vi è potenzialmente il martire, vale a dire un personaggio estraneo alla logica dei conflitti democratici. Paradossalmente il Partito radicale è il più laico dei movimenti politici italiani, ma si è servito degli handicap fisici di alcuni fra i suoi più tenaci militanti per creare il martire, vale a dire un personaggio che appartiene alle guerre di religione piuttosto che alle battaglie civili. Nella grande maggioranza dei casi i digiunatori, naturalmente, non desiderano la morte. Vogliono vivere, combattere, e sperano di vincere costringendo l’avversario a deporre le armi. Ma questo, spiace dirlo, è un ricatto» (La Lettura – Corriere della Sera, 19.2.2012).Sarà solo un caso, ma da allora i suoi interventi ai microfoni di Radio Radicale (una media di tre o quattro interviste al mese, da diversi anni) non sono più frequenti come prima (in tre mesi è stato intervistato una sola volta).L’articolo di Sergio Romano offese a morte Marco Pannella e, per arco riflesso, tutti i radicali. Personalmente, ritengo che i suoi argomenti fossero «fuori fuoco». In primo luogo, quegli scioperi della fame non sono affatto pericolosi, per il semplice fatto che con tre cappuccini al giorno ci vogliono mesi per morire di fame. In realtà, si tratta di un momento liturgico. Com’è per il momento eucaristico, non c’è bisogno di credere che l’ostia sia davvero il corpo di Cristo perché sia formalmente rappresentata la comunione in suo nome. Così, non c’è bisogno di essere davvero preoccupati per la salute di Pannella per unirsi a lui nella rappresentazione del rischio.Un discorso a parte merita lo sciopero della sete, che è davvero pericoloso, ma che è sempre stato gestito con la massima cautela, ovviamente drammmatizzandolo a dovere, ma sempre in massima sicurezza e interrompendolo ogni volta assai prima che si verificassero serie complicanze. In entrambi i casi, insomma, si può parlare di «ricatto», ma il «martire» non corre mai alcun rischio. Romano avrebbe dovuto piuttosto spostare l’attenzione dal «ricattatore» al «ricattato» e chiedersi perché il primo possa ragionevolmente attendersi che il secondo ceda.Scarsa penetrazione anche per l’accusa mossa ai radicali di essersi serviti degli handicap fisici di alcuni militanti per spostare certe questioni «dal corpo dei malati al cuore della politica». In realtà, Luca Coscioni e Piergiorgio Welby sapevano ciò che facevano e hanno sempre consentito a farsi strumento delle iniziative radicali, né più né meno di quanto i radicali si sono fatti strumento delle loro istanze: strumentalizzazione, sì, ma reciproca. Se proprio si vuol cercare il pelo nell’uovo, strumentalizzazione non reciproca si è avuta solo in occasione dei funerali di Welby, che non era affatto cattolico e non aveva chiesto affatto fossero religiosi, limitandosi a dire ai familiari: «Fate quello che volete». Il divieto opposto dal cardinal Ruini alla richiesta dei familiari offrì un assist formidabile ai radicali per fare di Welby, post mortem, una punta emergente di quello «scisma sommerso» che da sempre illude Pannella di poter pescare consensi nel mondo cattolico, inseguendo la chimera che hanno attraversato tutto il Novecento, dal Modernismo al Concilio Vaticano II.Sebbene assai superficiali e debolmente argomentate, le obiezioni sollevate da Romano offrivano comunque un’occasione di riflessione ai radicali, per lo meno sull’uso a fini interni che Pannella fa dei suoi digiuni, da decenni, per mobilitare tutte le forze del movimento sulle iniziative che di volta in volta egli decide come prioritarie. Occasione persa: prevalse, come si è detto, la reazione di chiusura alle critiche. Reazione destinata a ripetersi alcuni mesi dopo, per un’editoriale di Luca Ricolfi (La Stampa, 27.5.2012).

2. Quando un autorevole studioso della vita politica italiana come Ricolfi scrive che «la deferenza verso i capi, la sottomissione all’autorità dei cooptanti, è così profonda, in Italia, da coinvolgere persino i radicali, ovvero il più anti-autoritario, il più libertario, il più laico fra i gruppi politici italiani», l’attenzione corre a quel «persino». Chiunque ne abbia studiato anche solo superficialmente la storia, infatti, sa bene che almeno da trent’anni la «cosa radicale» è proprietà privata di Marco Pannella, assai più di quanto un qualsiasi altro partito lo sia del proprio leader. Un caso più unico che raro di leadership a vita.È evidente, allora, che quel «persino» voglia sottolineare ciò può apparire un paradosso solo a chi non abbia mai fatto esperienza della «cosa radicale» dal suo interno, limitandosi a guardarla dall’esterno, molto superficialmente, o con la benevolenza che solitamente non è riservata alle altre formazioni attualmente operanti sulla scena politica italiana. A guardarla in questo modo, infatti, la «cosa radicale» sembrerebbe tutta nelle sue passate e presenti battaglie in favore del diritto e dei diritti, nel solco della migliore tradizione liberaldemocratica, ai cui principi si darebbe per scontato sia ispirata anche la sua vita interna.Così è solo in apparenza. Per meglio dire, questa è l’immagine che i radicali hanno sempre amato dare di sé all’esterno. Spesso riuscendoci, bisogna dire, sicché proprio grazie a questa immagine che Pannella ha saputo raccogliere attorno a sé, lungo un arco temporale di oltre cinquant’anni, un numero di militanti sempre assai esiguo, ma sempre assai motivati e, almeno fino a una ventina d’anni fa, in costante ricambio. Dai primi anni Novanta ad oggi, invece, il numero degli iscritti alla cosiddetta «galassia» registra un lento ma sensibile calo, che allo stato pare irreversibile, per un sempre più ridotto numero di nuovi iscritti, ma soprattutto per l’abbandono di tanti militanti di breve e di lungo corso, che quasi sempre si consuma polemicamente, spesso in modo assai drammatico, sul nodo di patenti contraddizioni. Non c’è bisogno di metterci il naso dentro per capire che siamo al paradosso incarnato da quel padre fondatore della nazione americana che fu strenuo difensore dei diritti umani continuando ad essere padrone di 200 schiavi. Un movimento politico che si dichiara liberale, liberista e libertario, ma che di fatto ha guida autocratica. Che si dichiara aperto a tutti, ma che di fatto ha struttura settaria. Che mena vanto di avere orizzonte transnazionale, ma che di fatto non è immune dall’inguaribile vizietto romanocentrico di ogni cittadella della partitocrazia italiana. Una classe dirigente che si dichiara «intellettuale collettivo», ma che di fatto copre quasi tutta intera la gamma delle sfumature del carattere gregario. Che fa fiera professione di anticlericalismo, ma che riproduce le dinamiche relazionali del modello monastico e si compiace dei rituali nevrotici della sua liturgia. Che tenta di accreditarsi presso l’opinione pubblica come campione di un superiore stadio antropologico, ma che non riesce mai a tenere a freno le pulsioni ancestrali dell’orda.Ma torniamo a Ricolfi, che scrive: «In Italia si va avanti per cooptazione. Anche chi va avanti con pieno merito, in genere può farlo solo perché qualcun altro, il “capo”, a un certo punto ha dato disco verde. Ha chiamato. Ha promosso. Ha coinvolto. Ha incluso. Ha ammesso nel clan, nel gruppo, nella rete, nel “cerchio magico”. A quel punto è naturale per il cooptato maturare un senso di riconoscenza, di fedeltà, di lealtà, che gli fa percepire ogni possibile battaglia futura come un tradimento, una manifestazione di ingratitudine. Questo meccanismo è così diffuso, così endemico, quasi scolpito nel nostro modo di sentire, che finisce per coinvolgere anche chi in realtà avrebbe tutti i numeri per dare battaglia, per promuovere il ricambio, per liberarci di personaggi che, con il passare degli anni, diventano un peso, se non altro perché non possono più dare il meglio di sé. Una singolare incapacità di “uccidere il padre”, nel senso freudiano di diventare grandi e maturi, inquina e intorbida la vita del nostro Paese. Il padre non viene ucciso semplicemente perché gli dobbiamo troppo, se non tutto; e chi ha grandi debiti non può essere libero, non solo in economia. Più che i padri che non lasciano il comando, colpisce il fenomeno dei figli che nulla fanno per prenderlo. Come se ereditare fosse l’unica modalità di successione che conoscono. E non si pensi che, in politica, il problema riguardi solo la destra. C’è una controprova clamorosa che non è così. Tu apri Radio Radicale e immancabilmente, quotidianamente, incappi in una esternazione di Marco Pannella. Un fiume di parole disordinato e sostanzialmente incomprensibile, almeno per persone normali. Perché? Perché nessun politico radicale ha mai seriamente conteso la leadership all’ultra-ottantenne Pannella? Qui non c’entrano i soldi, non credo che Pannella finanzi il suo movimento politico...»Errore. Come si è già detto nelle precedenti puntate (1, 2, 3), la leadership carismatica di Pannella è solo la patina che ricopre il suo ruolo proprietario. Nessun soggetto politico dell’area radicale è finanziariamente autonomo, se non la Lista Pannella: 653.000 euro di rimborso elettorale per i 9 parlamentari eletti nelle liste del Pd, altri 4.400.000 come fondo per l’editoria destinato a Radio Radicale, più altri 8.330.000 per la convenzione per le sedute parlamentari. Senza questo denaro la «galassia radicale» sarebbe ingoiata da un buco nero, ed è denaro va alla Lista Pannella, che non è un partito, ma un’associazione, della quale fanno parte «quelli che, sottoscrivendo l’atto costitutivo, acquistano la qualifica di fondatori e quelli che vi aderiscono annualmente, denominati “soci ordinari” previa loro ammissione da parte dell’assemblea dei soci». In pratica, un consiglio di amministrazione nel quale si può entrare solo per cooptazione. Ecco, dunque, la risposta alla domanda posta da Ricolfi.3. Come nel caso dell’articolo di Sergio Romano, anche qui c’era occasione di dibattito interno. Occasione sprecata, per analoga reazione di chiusura ad ogni critica. Nella conversazione domenicale con Massimo Bordin del 27 maggio, lo stesso giorno in cui La Stampa mandava in pagina leditoriale di Ricolfi, Pannella rigettava ogni addebito, cogliendo così il destro di mettere una pietra tombale su ogni velleitaria aspirazione al rinnovamento interno che sembra ultimamente muoversi dalla base, come ciclicamente è accaduto, sempre senza alcun esito. Stavolta, chi si azzarderà a riprendere le obiezioni di Ricolfi sulla leadership a vita di Pannella sarà bollato come ricolfista e tanto basterà a liquidare le sue ragioni. 

Storpiandone ripetutamente il cognome in Ridolfi, odioso mezzuccio che usa di frequente nell’evidente quanto patetico tentativo di togliere la dignità del nome all’avversario col quale scende in polemica, per sminuirne il valore in merito, Pannella ha risposto a Ricolfi chela «cosa radicale» ha da essere com’è, punto. Versione senile del bimbetto prepotente che rammenta: «Il pallone è mio». Chi vuole giocare è avvertito.
Ma forse è ingeneroso sintetizzare in questo modo le ragioni di Pannella, peraltro quanto ha detto nel corso di quelle due ore ci offre puntuale conferma della sua particolare visione della «cosa radicale», che in più occasioni ho avuto modo di accostare a quella ecclesiale del «corpo mistico». Occorre, dunque, districare dal groviglio della sua logorrea i punti salienti di questa idea del partito-non-partito come massa inerte resa viva dal Verbo del suo leader. A parte, meriterebbe attenzione il suo frusto arsenale polemico, perché accanto al mezzuccio dello storpiare il nome della persona con la quale incrocia il ferro (o a quello del far finta di non rammentarlo), in Pannella è frequente – ed anche con Ricolfi vi ha fatto ricorso – il degradare gli argomenti che gli sono opposti a costrutti di pessima scuola. Così, la lettura fatta da Ricolfi del mancato ricambio di leadership nella politica italiana non viene affrontata nel merito, ma liquidata come «sociologista» e «pseudoadleriana». Con Ricolfi, insomma, siamo all’uso deteriore della sociologia e della psicologia. Ne è data congrua dimostrazione? Per nulla. Occorre aver fede che Pannella abbia letto Adler, occorre dar per scontato che abbia fatto studi di sociologia, anche se per sua stessa ammissione non legge un libro da quarantanni. Si tratterà di rimembranze di letture giovanili, via, possono bastare a chiudere il becco ad un sociologo che è docente di psicometria in una delle più prestigiose facoltà universitarie di psicologia. «Non di rado [dunque] avev[a] espresso dei giudizi lusinghieri e a volte quasi entusiasti dinanzi alle sue analisi», ma adesso deve ricredersi: Ricolfi – anzi, Ridolfi– è un cretino.
In pratica, perché la «cosa radicale» farebbe eccezione rispetto agli altri partiti che pure sono proprietà privata di un leader a vita? «Quando al carisma si congiunge anche il potere, quello è qualcosa che è contrario a una vita quale dei liberali e dei democratici possono augurarsela... Ho sempre ritenuto che la congiunzione dell’elemento carismatico, del prestigio, con quello dei potere statutari, è pericolosa». Ecco la differenza: negli altri partiti  il leader carismatico è anche presidente o segretario. Pannella, invece, mette un leccaculo a fare il segretario, un altro a fare il presidente, e salva la «cosa radicale» dal pericolo. Per sé tiene il ruolo di semplice militante, mica è colpa sua se poi ha prestigio. Pannella è un radicale qualsiasi, solo che sta lì da più tempo. Gli altri? Pannella dice che sono il «sensus fidelium», lecclesia che partecipa della sua funzione profetica. Mai tanto chiaro come in questa occasione.
4. Ma la conversazione Pannella-Bordin del 27 maggio è stata interessante anche per unaltra ragione. Si è avuta finalmente spiegazione di una frase di Bordin che su queste pagine ho riportato almeno una decina di volte. È tratta da una intervista che Bordin rilasciò nel 2004 a Marianna Rizzini, per Il Foglio: «Il sogno di un partito radicale senza Pannella è il sogno di uno che ha mangiato pesante: non ha senso. Il partito radicale è lui. Punto. E invece trovi sempre qualcuno che vuole spiegare a Marco come andrebbero organizzati e guidati i radicali. È un esercizio vacuo, sbagliato ancor prima di essere inutile». Perché, dunque, Pannella è il partito radicale? «Dagli anni Sessanta [i radicali sono] un comitato elettorale o comunque gente assai varia che sta insieme per proporre una leadership – una candidatura allamericana se si vuole – non a se stessi ma alla politica e al paese. Il fatto che sia passato molto tempo, e si siano ottenuti risultati ma non il risultato, è certo un problema mentre non lo è il mancato ricambio della leadership, che sarebbe privo di logica»
Duoledirlo, ma è spiegazione che non regge, anche se è encomiabile lo sforzo di dare una ragione digeribile allautocrazia di Pannella. È lo stesso Pannella, daltra parte, a rigettare questa interpretazione, che dunque cade, perché una leadership alla politica e al paese nella persona di Pannella può essere proposta se Pannella laccetta, ma è evidente che Pannella non l’accetti, come lo stesso Bordin è costretto ad ammettere: «Pannella sostiene che non è nemmeno così e che lui si reputa un militante di partito che esercita il suo impegno politico». Dovrebbe bastare per rivedere il senso della propria militanza radicale: se Pannella non è il candidato allamericana che Bordin vorrebbe a leader del paese, e non lo è perché non accetta tale ruolo, quale altra spiegazione è data per giustificare il fatto che da semplice militante di partito ne ha in mano il timone e la cassa? «Sarà – dice Bordin ma io resto della mia opinione. Che mi può succedere? Mica mi mangia». No, caro Bordin, non la mangia – quello lo farebbe solo se lei si azzardasse a contestarne la leadership – la succhia. 
[segue]

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