di Giovannni Occhipinti. Mi fa sentire in buona compagnia la lettura di L’opera interiore – Filosofia come cura di sé, di Bruno Meucci. Mi pare, leggendola e meditandola, di ritrovarmi nella bella e accogliente Comunità di san Leolino, dove egli vive, col fratello Giovanni, in compagnia degli altri componenti e del fondatore e direttore don Carmelo Mezzasalma.
Una perla di civiltà dello spirito, a Panzano, nel cuore del Chianti, dove si medita sulla cura della realtà interiore dell’uomo, affidata, oltre che alla grazia della fede, all’attività e alle proposte culturali, come prova, tra l’altro, la rivista “Feeria”, diretta da Carmelo Mezzasalma, poeta e saggista, attraverso l’espressione forte di umanità e umanesimo, per un coinvolgimento, appunto, attivo e profondo dell’ “altro”, l’uomo che incontriamo ogni giorno nel corso della nostra vita e che con noi ne condivide il tempo breve e quello, interminabile, degli affanni.
Appunto di questo vorremmo parlare con l’autore, muovendo da uno dei temi caldi della contemporaneità: lo smarrimento e la caduta dei valori che determina la crisi spirituale dell’uomo. Molte e varie, le occasioni di distrazione oggi finiscono per banalizzare e compromettere il significato profondo della vita, che è poi il senso nascosto, quello umanissimo e dolente della sua illeggibilità o se vogliamo del geroglifico dell’esistenza.
Meucci affronta queste argomentazioni partendo dalla necessità di “curare se stessi”. Cosa vuol dire? Innanzitutto, che bisogna coltivare i valori umani in ciascuno di noi. Siamo in un’area delicatissima, che confina con la spiritualità dell’uomo in quanto essere e mistero del Creato e dunque parte vitale dell’esistenza. Ma attenzione, bisogna evitare il rischio di dedicarsi materialmente a se stessi; ciò potrebbe comportare e/o determinare il culto della negligenza nei confronti dello spirito, col conseguente allontanamento dal nostro essere spirito o anima. Mi pare sia questo, in buona sostanza, il sostrato profondo del discorso di Bruno, il quale, nel concetto di “cura di sé”, esamina l’esaltazione dello stile di vita che prevede e contempla la cura dello spirito ovvero dei valori umani, e umanizzanti, perché in grado di preservarci dalle conseguenze dell’affermazione del feticismo materialistico, ingannevole e fuorviante: per esempio, l’uomo che soggiace al richiamo della pubblicità finisce poi per esserne succube sino a divenire sacerdote del proprio corpo, dei propri bisogni materiali, così da celebrarne il culto, dimentico del grande problema, poniamo, della fame nel mondo, del dramma delle grandi migrazioni e in generale della miseria che affligge gli individui della nostra sempre più disorientata società, insieme a tanti popoli della terra. Sotto questo aspetto, il libro di Bruno Meucci si offre al lettore come oggetto di riflessione, che conduce subito al rispetto e alla considerazione dell’ “altro” o della prossimità: il prossimo, uno dei concetti cardini, e dibattuti nei secoli, della pedagogia cristiana degli Evangeli, ripresi e diffusi da Paolo di Tarso. Ed eccoci alla sostanza del discorso squisitamente spirituale del nostro autore, il quale vuole ricordarci che la “cura di se stessi” è prima di tutto di ordine spirituale, e lo è nella misura in cui l’egoismo o l’egocentrismo, o peggio, l’egotismo, cedono il passo a quella carità paolina solo possibile in una vita e in una società cristocentrica e teocentrica, che tutto dà, tutto sopporta e tutto soffre, nel pensiero costante che sulla strada accidentata della vita non siamo soli, ma procediamo in gruppi, in moltitudini anche etniche, perché no?, attraverso la lunga marcia dell’essere e dell’esistere. Siamo insomma alla grande pagina del Vangelo di Cristo, che riguarda la valutazione di noi stessi e dunque i principî della conoscenza, riassumibile nella terzina dantesca: “Considerate la vostra semenza/ fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e cognoscenza” (inf., canto XXVI).
Esistere ha dunque a che fare con l’etica del mondo; e questo ci proviene da molto lontano: dal Mito e dal bisogno di risposte che videro nell’oracolo una intermediazione tra il dio e l’uomo, insomma le risposte che provenivano dal mistero da cui l’esistenza già allora appariva come alonata. Una condizione che metteva alla prova i limiti della creatura umana, ma allo stesso tempo faceva nascere la curiosità e il bisogno di saperne di più, interrogarsi, conoscere: da qui l’ontologia dell’esistenza e dell’essere. Dalla condizione esistenziale all’eternità, attraverso la conoscenza. Certo, una domanda che nel proprio risvolto contiene una interrogazione che l’autore rivolge anche a se stesso, circa l’oraziana misura delle cose (est modus in rebus), che preserva però, dall’eccessiva cura di sé e dunque dalla prigione dell’io ovvero dell’egoismo o dal parossismo dell’io narciso. Potremmo anche parlare di analisi del destruens e del negativo del mondo, dei quali è quasi sempre responsabile l’uomo, tra narcisismo e nichilismo, fatta di intuizioni e riflessioni supportate, molto opportunamente, da ricerche attente ai problemi dell’uomo contemporaneo (cfr. il fitto apparato bibliografico, in appendice al libro). Certo, incontrarsi con la complessità della psicologia potrebbe essere come muoversi in un campo minato, essendo, essa, per sua intrinseca natura, spesso in contrasto con i dettami morali e l’etica della religione, i cui principî e norme, per esempio nel Cristianesimo, spesso non coincidono, non trovano corrispondenza, o peggio, contraddicono le teorie della cosiddetta “scienza dell’anima”.
È ben lontana, la psicologia, dal Vangelo di Cristo e dall’insegnamento della dottrina cristiana. Si veda, a esempio, la giustificazione che questa scienza dà del “culto di sé” e, all’opposto, l’esemplarità invece della parabola del buon samaritano e, nel racconto biblico, l’episodio sul significato della Croce, che diviene il patibolo di Cristo, l’uomo-Dio; e in proposito si pensi, in piena complicità con l’autore, alla querelle, negli anni Settanta, Witz-Rogers (cfr. p. 15 del libro).
Questo di Bruno Meucci è uno studio dagli spunti molto ambiziosi, che andrebbero ripresi e approfonditi perché contengono il nucleo della questione-uomo in rapporto anche alla teologia biblica. La verità in questo libro è anche che il “sé” dell’umo vive la costrizione del proprio bozzolo esistenziale, a dispetto delle ricerche della psicologia e delle grandi affermazioni bibliche, su cui l’uomo ancora dibatte, forse a difesa della natura e del destino della propria unità bio-psichica, con radici nella terrestrità che gli fa soffrire la nostalgia dell’entità ontologica e del mistero della lontananza metafisica.
Nella tesi dell’autore il “sé” dell’uomo, alla ricerca del proprio equilibrio, si pone fuori dalla realtà del quotidiano, là dove l’individuo si incontra e scontra con l’alienazione prima che il proprio “sé” si faccia valore tra i valori e questi, a loro volta, spinta all’evoluzione vera e propria, ma fuori del “culto di sé”, negatore di ogni vocazione e tensione conoscitiva, che presuppone l’humanitas dell’individuo a dispetto dello sterile narcisismo cultuale.
Si pensi, nella romanità, a Appio Claudio il Cieco: “Ciascuno è artefice del proprio destino”. Un detto già alla base della pedagogia dei Latini, indipendentemente dall’uso della verga, aborrita da Quintiliano. Ma è anche vero che il destino dell’uomo è soprattutto nei propri geni, è insomma determinato anche dal fattore genetico e come tale riguarda la scienza. La familiarità ha, qui, l’ultima parola e il discorso ci porterebbe lontano, alla letteratura positivistica e ai “lasciti” dell’ereditarietà! Il problema, infatti, apre, qui, i propri labirinti… ahimè! Giacomo Leopardi, per esempio, il proprio destino se lo costruì da infelice, da “fottuto gobbo”, come gli gridava dietro la ragazzaglia di Recanati, scrivendo e lagnandosi sublimemente di tutto, persino del padre Monaldo. Temeva il mondo gli uomini le cose l’amore la morte la vita Dio; e come il grande Giacomo, tanti grandi-piccoli uomini che curano il proprio “sé” attraverso il culto della saggezza della parola (gli scrittori, i poeti) o della materia (i pittori, gli scultori), che trovano spirito e nobiltà nella modulazione della forma e del volume; o nell’invenzione e nell’uso del cromatismo, nel momento di divenire oggetto d’arte. O quando diviene e supera, la materia umana, gli enigmi della scienza biologica o quando l’uomo, scrutando o volendo, cerca di carpire i grandi segreti della vita in favore della scienza meccanica e astrofisica.
Il problema della malattia toccato da Bruno Meucci è vorticoso e crudele, avendo a che fare con l’esistenza, ovvero con la lotta contro il quotidiano – la quotidianità – e nello stesso tempo con la grande domanda che vuole aprire squarci metafisici, ricercando là le risposte e qualche volta là ritrovandole, è quando diventano espressione di vita e punto di forza dell’esistenza, persino grazia, come in Rèbora: “L’umiliante decompormi vivo/ sia l’indizio del tuo vitale arrivo” (da: L’umiliante decompormi vivo).
Il problema è stato anche croce e tormento della grande letteratura russa (Tolstoj, Dostoiewskij) e francese (Mauriac, Bernanos); e non si dimentichi, tra i poeti quel narciso-malinconico che fu Ugo Foscolo il quale molto soffrì e molto fece soffrire; o l’infelice Catullo o le tristezze di Dürer. Non sempre è corretto il rapporto tra l’uomo e il proprio ambiente (“l’ambiente fa l’uomo”, si diceva un tempo). Un modo di evidenziarne l’importanza nell’influenza formativa, nel bene e nel male, sull’uomo. Dunque, la psicologia dell’ambiente interagisce con la psicologia dell’individuo: una sorta di dialettica individuo-ambiente-psicologia già evidenziata dalla psicoanalisi freudiana. Un incontro o fusione tra la greca psyché degli individui e quella esteriore delle “cose”.
Laddove la psicologia mostra i propri limiti, là interviene la filosofia: e questo avviene quando ad agire corrosivamente è il pensiero della fine, la morte. A questo punto, il libro di Meucci si apre per cenni ai grandi problemi dell’umanità, che per la loro importanza meriterebbero una maggiore e più assidua tensione e attenzione, certamente in uno spazio più generoso. Si fa più fitto l’intrecciarsi di male fisico e “male” spirituale, su cui si sono soffermati nel tempo la filosofia, ma anche la poesia del dolore ( Pascoli, Rèbora, Ungaretti, Testori, Turoldo), al di là del concetto cristiano di dolore e di redenzione. E d’altra parte, non mi pare che la filosofia, la psicologia abbiano dato soluzioni definitive e palpabili circa il rapporto Croce-redenzione. Il problema viene da molto lontano: lo ebbero in grande considerazione già i greci e i romani, nel senso che prendersi cura di sé vuol dire anche curare l’anima. In fondo Thomas Moore, e già prima Hillman, avevano rivolto attenzione massima a questo aspetto, forse sull’esempio della teoria di Platone circa il “male di vivere” (un motivo che nel ’900 attraversa la poesia di Montale e in tono minore di Quasimodo) e, di conseguenza sulla necessità di prendersi “cura di sé”. Il discorso è poi approfondito, nel ’900, da Martin Heidegger, anche se, ancora una volta, non mi pare trovi sbocchi risolutivi, nemmeno nel maremagnum della filosofia, pur se questa nasce dal bisogno di conoscere la “realtà” che si cela all’uomo al di là dell’uomo; ma nasce anche dal Mito e del Mito si serve, prima ancora che sulla scena appaiano le grandi figure dell’antica Grecia, da Socrate a Platone ad Aristotele, che si soffermeranno poi sulla interdipendenza anima-corpo, per la cura dell’una e dell’altro: cosa che creerebbe le condizioni necessarie per l’affermazione dell’uomo e il progresso dell’umanità, inteso anche come dominio della natura. Dominio e sintonia con la natura, quindi coesistenza, nel rispetto, con le leggi della natura: da qui il nascere e lo svilupparsi della paideia greca che favoriva, a sua volta, il progredire dei contesti socio-storici. E anche qui gli scenari sono aperti al Mito e agli dèi, i quali mettono l’uomo in condizione di adeguarsi alle leggi naturali, ricavando sostentamento dalla natura.
Excursus storico esaustivo sul pensiero filosofico e pedagogico, che ha orientato l’antica Grecia, condotto con l’impegno, direi severo, di chi ha a cuore l’importanza della serietà del lavoro intellettuale che concerne l’informazione, particolarmente là dove Meucci ci parla dell’etica socratica, per certi versi anticipatrice della pedagogia di Cristo, relativamente al comportamento dell’uomo e ai suoi bisogni spirituali, anche in senso pitagorico, ovvero come contemplazione ma anche superamento delle passioni.
Lo stesso sacrificio di Socrate, mandato dalla divinità per il bene dell’anima, sembra anticipare il sacrificio della Croce legato al concetto di redenzione dell’anima, come apprendiamo dal Fedone.
Tutto il discorso sull’uomo (non si può trascurare l’aspetto omocentrico del saggio di Bruno) impegna la speculazione filosofica (anima-corpo), ovvero il pensiero di Socrate, e porta alla condotta morale dell’uomo, la quale fa leva sui valori dell’etica che transitano attraverso la materia sensibile del corpo e lo umanizzano in prospettiva della trascendenza.
L’intelligenza dell’uomo possiede la capacità di percepire l’anima attraverso i valori coltivati dalla sua stessa interiorità: è evidente, qui, il collegamento con l’Etica Nicomachea di Aristotile, un concetto che influenza Cura di sé del contemporaneo Michel Foucault, peraltro supportato dal pensiero socratico.
Ci chiediamo se questo libro, che parla dell’uomo e dell’anima, non voglia farci riflettere, in ultima analisi, sul fatto, fondamentale, che l’uomo non fa che ricercare Dio attraverso la speculazione filosofica del suo pensiero, che vive il bisogno la forza l’ansia dell’anelito, ma mai si appaga, mai viene appagato da una qualche certezza e ritorna sempre sull’ “Oggetto” delle sue considerazioni, chiedendo interrogando interrogandosi, senza poter mai definire, questo Dio, così presentemente assente nella vita dell’uomo, che invece Lo vorrebbe – a dispetto del paradosso ossimorico – visibile e accanto come un fraterno compagno di strada! Ma il mistero si sottrae alle tensioni dell’uomo e tutto sempre ricomincia sul cammino infinito dell’eternità, così che resta basso l’orizzonte e precluso ai Cieli (i “Cieli” di Rilke o i “Cieli noncuranti” di Dylan Thomas?) della Conoscenza e della conquista definitiva o dell’appagamento che placa, il fine ultimo: Dio, nel quale tutto coesiste: il buono, il bello, la bellezza, l’amore, la sapienza, la giustizia, la carità, come Meucci scrive, citando Agostino, a proposito de La Città di Dio.
Dotta disamina antropo-psico-filosofica sull’uomo, questa di Bruno Meucci, il quale attraverso la filosofia classica, moderna e contemporanea, sottolinea la propria posizione in rapporto alla propria realtà psico-fisica e a quella socio-storica. Una disamina sul legame col senso religioso della vita, che da sempre comporta il confronto tra essere e esistere, con l’inevitabile domanda su Dio. Si spiegano allora il coinvolgimento di Agostino di Tagaste e di Pascal, di Hegel e di Nietzsche, e certe avvedute incursioni nel campo sterminato, e non sempre assolutamente certo, della scienza e delle neuroscienze.
L’uomo ha la coscienza della propria nudità rispetto a se stesso e alla propria vita ed è impotente di fronte all’inintelligibile, quanto invece è ansioso di trascendenza, con la mente e gli occhi fissi alle epifanie del Cielo, all’incanto metafisico, ma nel tremore e timore dell’inganno che tutto possa definitivamente concludersi su questa terra, terragnamente!
Affidarsi, allora, soprattutto, al mistero di Dio più che alle incognite della scienza e ai suoi intricati algoritmi, che spesso non trovano applicazione pratica e non si aprono alla conoscenza, non aprono noi alla conoscenza della verità che ci sovrasta, soprattutto quella cosmica.
Il capitolo sul confronto con le scienze (ma anche con la bio-medicina) è il più complesso, stimolante e rischioso: tende infatti, pur nella complessità delle argomentazioni, a non dare risposte esaustive e attendibili sulla materia dell’uomo, in rapporto ai condizionamenti ambientali e all’influenza della scienza sulla nostra libertà di scelta. L’argomentazione dell’autore mira anche al confronto col problema delle neuroscienze e dell’influsso dell’ambiente. Genetica, biologia e storia sarebbero all’origine del comportamento dell’uomo, a dispetto del libero arbitrio? Si diceva: l’ambiente fa l’uomo; ma anche: tale padre, tale figlio! Epperò, tutto questo può bastare a definire l’uomo? Non c’è perfezione per lui, ma perfettibilità; e ciò vuol dire che la sua natura diviene, ha un suo interno o interiore e misterioso travaglio che ne determina di volta in volta la mutazione, lasciando sottintendere che in lui tutto è imperfetto, proprio perché tutto è perfettibile. Ma dov’è la risposta se tutto nella vita dell’uomo sembra contrapporsi al racconto biblico intorno al suo essere e alla sua sorte terrena e ultraterrena? La sua sorte di creatura a immagine e somiglianza del suo Creatore! La filosofia e la teo-filosofia non hanno strumenti né per affermare né per negare. C’è una filogenetica che rende l’uomo espressione del proprio tempo e della propria specie, sicché ne mutano le azioni in rapporto alle fasi evolutive e socio-storiche; e in ogni caso, egli non sempre si rende conto del proprio ruolo di creatura nata per soffrire e morire; e può anche vivere da despota, da dittatore la propria irrazionalità, l’illusione di una eternità terrena che può renderlo carnefice. Un tiranno di se stesso che ignora, per il proprio tornaconto, i valori della vita, ma anche il destino escatologico che lo attende. E allora, vien da chiedersi: dov’è l’uomo, quale lo prefigura il cristianesimo? l’uomo che si interroga sull’Oltre e sull’Altro? l’ uomo che vive l’avventura terrena e esistenziale, in vista dell’avvento di una nuova realtà ultraterrena? ma Cristo allora ingannava? e inganna la teologia del Vangelo? farnetica la filosofia ricercando risposte alle sue domande? o la filosofia, come l’uomo, vive l’assillo di una verità solo contemplata, interiormente, nel desiderio che possa essere altra la sorte dell’uomo sulla terra, e certa e rassicurante, quasi visibile, la promessa metafisica di una nuova realtà escatologica? Da millenni l’uomo è intento a leggere il geroglifico dell’esistenza e a confrontarsi col mistero dell’inintelligibile. Ma esiste, oggi, l’uomo, quello a cui Cristo rivolge il suo messaggio? Diogene lo cercava con la lanterna; il teatro dell’assurdo, che si esprime attraverso l’illogicità del linguaggio, delle situazioni, appunto, assurde della realtà, da Ionesco a Beckett a Torthon Wilder, sviluppa tutta una poetica sulla realtà della vita vissuta-non vissuta o “disvissuta” come diceva Sciascia, dall’uomo: “C’è nessuno, nessun essere umano che sappia ciò che vive mentre vive?”; e Pirandello non è da meno: non sa da dove viene e dova va; e sintetizza il concetto di uomo nella definizione grottesca della “maschera” e del “pupo”: come se il Nobel girgentano disanimasse l’uomo, lo privasse insomma dell’anima, come volesse incontrarlo nella parodia del Pinocchio collodiano.
Tutto questo ci dà un’immagine incerta e vacillante, ancorché problematica, dell’uomo della terra; e tutto questo, in buona sostanza, ci induce a pensare all’autore di L’opera interiore, perché quando si parla di Dio si parla anche dell’uomo. Ne accenna molto opportunamente Bruno quando precisa che “L’antropologia cristiana offre una spiegazione particolare di questo enigma”, a conclusione di una sua affermazione: “La vita intera, che sembra un giardino di delizie, non riesce a saziare la nostra fame”; e per introdurre una verità interiore che da sempre ci assilla: “Dal momento in cui nasce, l’uomo cerca di trovare il senso della sua vita nel mondo, ma non riesce a sentirsi a casa in nessun luogo”; e riporta, dalla Lettera a Diogneto, a proposito dei cristiani, e quindi anche degli uomini: “Passano la vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo […], abitano nel mondo, ma non sono del mondo”. Bene, questo non ci basta ed eccoci a vivere la dimensione dell’infelicità! Quale risposta dare, cosa fare, appellarsi alla grazia delle fede? Il segreto, l’enigma è nel domani che ci porrà di fronte all’altrove; anzi, il domani sarà l’altrove, ma nell’altrove l’uomo non ci sarà, essendoci l’ “altro” dall’uomo… l’anima finalmente placata che non ha memoria dell’uomo: l’anima, essenza dell’uomo, alla quale perviene nella mutazione che la ammette nella dimora dell’Assoluto, là dove e quando la vita si spegne ai contrasti insopportabili degli ossimori umani, che abbagliano e confondono l’esistenza, esaltandone o nascondendone ogni inganno: ed è quando le luci abbaglianti di quel coacervo che è la Città dell’uomo si annulleranno nella Luce della Città di Dio, quando l’uomo si scoprirà nella penombra dolente e mortificata del proprio fallimento esistenziale, della propria incompiutezza, avendo vissuto agostinianamente le contraddizioni di percorsi di vita che avevano dentro, che avevano in sé, la nostalgia malata e contrita, e dunque l’angoscia per il timore di non vivere la condizione di una esistenza finalmente nuova, finalmente oltre la terra. Una condizione artisticamente sintetizzata da Michelangelo Buonarroti nell’allegoria onto-metafisica degli ultimi marmi…
Sono certo che Bruno, vorrà perdonare queste riflessioni di un povero cristiano, che poi costituiscono l’assillo dei poveri cristiani del mondo, di tutti coloro che soffrono la mondità, che non è solo il “male di vivere” di Montale o Ungaretti, e in generale della grande poesia del Novecento, ma la condizione necessaria per ricercare e desiderare l’ “Altro”, attraverso un colpo d’ala degno del Vescovo di Ippona!
Punta Braccetto, agosto 2013
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