Il museo MAXXI, punto di riferimento principale dell’arte contemporanea a Roma, propone la mostra retrospettiva di uno degli artisti italiani più riconosciuti a livello internazionale: Michelangelo Pistoletto.
La mostra, che include più di 100 opere provenienti da collezioni pubbliche e private tra Italia e Stati Uniti, racconta lo sviluppo professionale di Pistoletto dal 1956 al 1974, definendo la personalità e la sensibilità di uno degli artisti che hanno fondato il celebre movimento italiano chiamato “Arte Povera”.
Questo movimento, che si è fatto conoscere alla fine degli anni ’60, rappresentava una critica puntuale alla commercializzazione dell’oggetto artistico, e tentava di sfuggire al mercato usando materiali considerati poveri (come legno, foglie secche, vetri, vegetali, carbone ed argilla), esigendo l’intromissione del pubblico. L’intenzione, ancora molto forte in Pistoletto, era generare un’intensa riflessione sull’arte e sul suo significato attraverso l’osservazione di materiali manipolati e di facile reperimento.
Michelangelo Pistoletto è nato a Biella nel 1933. Le sue prime esperienze artistiche risalgono a quando aveva 14 anni e lavorava con il padre al restaurando opere d’arte, e poi come apprendista con Armando Testa, celebre fondatore della più famosa scuola di grafica del tempo. La sua prima mostra individuale fu nella Galleria Galatea di Torino nel 1960. Nel 2003 ha vinto il “Leone d’Oro” alla carriera artistica nella Biennale di Venezia, e l’Università di Torino gli ha conferito la laurea honoris causa in Scienze Politiche. Attualmente è il direttore artistico di “Evento”, un festival di creatività urbana che si realizza a Bourdeaux.
La mostra “Da uno a Molti”, che rimarrà aperta al MAXXI fino al 15 Agosto, esplora il percorso artistico del Maestro, dalla sua rigorosa ricerca su se stesso alla rappresentazione della propia identità, fino alle recenti collaborazioni artstiche con altri grandi dell’arte. Le sue opere sono divise in tre gruppi principali: in una parte si trovano le superfici riflettenti e i plexiglass; in un’altra sala troviamo gli “Oggetti in meno” e gli “Stracci”, oltre alla serie “Luci e Riflessi”. Uno spazio a parte è riservato alle azioni e performance degli artisti del gruppo teatrale Lo Zoo, con oggetti e video relative alle opere.
La mostra vuole ricostruire in modo completo il lavoro dell’artista italiano nel difficile contesto delle trasfromazioni che cambiarono il paese nel secondo dopoguerra, esplorando le sue relazioni con movimenti artistici come la Pop Art, il Minimalismo, il Concettualismo e, soprattutto, sottolineando l’aspetto collaborative e relazionale dell’opera di Pistoletto dalla seconda metà degli anni ’50. Per maggiori informazioni potete visitare la web www.fondazionemaxxi.it
Se vi piace l’arte e volete vedere questa interessante mostra nel MAXXI, non lasciatevi sfuggire l’occasione di affittare appartamenti a Roma e godervi una splendida vacanza culturale nella capitale italiana.
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COMMENTI (1)
Inviato il 13 maggio a 22:08
Alla conferenza stampa di presentazione della mostra di Bergamo “Arte Povera in città”, curata da Germano Celant in collaborazione con Giacinto Di Pietrantonio insieme a M. Cristina Rodeschini e Antonella Soldaini, Celant ha dichiarato tra l'altro:“In Italia c’è sempre il rischio di ridurre tutto quello che è arte all’interno dei palazzi, insomma in forme di cultura aristocratica. Invece la storia dell’arte dovrebbe essere fatta anche nella strada: questo tipo di logica va promossa e il segnale può essere lanciato proprio da Bergamo”. Dichiarazione ovvia e lapalissiana se si fa riferimento ai tratti iniziali e, io dico fondanti e qualificanti, dell'Arte Povera, quella del primo manifesto “Arte di guerriglia” e quella praticata in linea di massima fino agli inizi degli anni '70 da gran parte dei protagonisti di questo movimento (se così vogliamo definirlo), ma dichiarazione strabiliante alla luce dei successivi sviluppi teorizzati e costruiti da Celant. Quando quest'ultimo parla di Palazzi non credo che si riferisca ad edifici periferici di edilizia popolare e nemmeno a generiche ricche magioni nobiliari, ma è chiaro, se non vogliamo prenderci in giro, che si riferisce ai Palazzi dell'Arte e del suo sistema e cioè ai grandi musei, alle galleria alla moda, ai vari palamodaarte, alle case d'asta, alle fiere d'arte ecc. E' singolare sostenere l'uscita dai palazzi dell'arte, e specialmente per l'Arte Povera, da parte di chi non solo è benissimo inserito in questi palazzi ma è anche l'artefice della più grande operazione della storia (mi riferisco a “Arte Povera 2011”) di “occupazione”, qualcuno ha scritto sarcasticamente “manu militari”, di questi palazzi dell'arte. A proposito poi dei magnifici tredici artisti celantiani, a parte la parentesi iniziale, mi pare che in tutti questi anni li si sia visti più nelle sale e nei corridoi dei palazzi dell'arte che per le strade. E non bastano certo a ribaltare la situazione i buoni propositi della mostra “Arte in città” di Bergamo in cui , tra l'altro, ben sei artisti su tredici non espongono nelle strade ma all'interno di un tipico palazzo dell'arte, dove si entra a pagamento! E' evidente che siamo di fronte all'ennesimo salto mortale critico, uno dei tanti ai quali Celant negli anni, a proposito dell'Arte Povera, ci ha abituati. Volendo sottilizzare, si potrebbe dire che quando si cambia opinione, come in questo caso in modo così repentino e radicale, sarebbe utile un minimo di argomentazione e di motivazione anche autocritica di un percorso che immaginiamo sofferto... Comunque, va bene così. Personalmente non posso che essere soddisfatto di questa evoluzione, dato che il lavoro artistico nella strada è stata sempre strategicamente, fin dal 1967, la mia scelta teorica e pratica (come è quella, del resto, di tantissimi artisti contemporanei) e, dato che proprio a proposito di “Arte Povera 2011”, non avevo aspettato queste ultime esternazioni per scrivere che “Il tentativo di mistificare e svuotare l'Arte Povera dei suoi significati primari, riducendola da complessa arte di guerriglia a innocua merce da aste, è pienamente confermato poi nelle scelte espositive con cui, almeno nelle principali mostre di Milano, Bologna e Torino, rispetto a una possibile ipotesi di museizzazione, si è scelto la via della museificazione. Vale a dire, la acritica e meccanica trasposizione in spazi rigidi di opere spesso nate per vivere ed essere fruite fuori da gallerie e musei. Opere spesso nate per essere interattive e coinvolgenti, per essere strumento performativo, per essere toccate, usate, a volte anche distrutte, costrette in rigidi spazi museali dove, per ragioni di principio o di sicurezza, non possono essere pienamente fruite e utilizzate, ma nemmeno toccate subendo una straniante decontestualizzazione ambientale e storica con un'operazione di re-aurizzazione che contravviene in pieno al loro spirito iniziale”. Ma, ripeto, non stiamo a sottilizzare. Almeno però, possiamo aspettarci, dopo le parole, i fatti che, alla luce dell'ultima svolta, non possono essere che una revisione da parte di Celant del giudizio storico sull'Arte Povera e del suo divenire dopo il 1970 e la conseguente rimessa in discussione della sua restrizione del movimento ai suoi magnifici tredici. Quanto a questi ultimi, tutti artisti di cui ho realmente molta stima, sarebbe logico vederli, in futuro, più assiduamente presenti nelle strade e nelle piazze. Io sono sempre lì. aprile 2012