Di solito sulle riviste di moda, o più in generale di costume, si discute dell’immediato, di quello che è sulla breccia, tanto per (ri)usare un’espressione consueta. Ciò non toglie, che parlare del contingente, della attualità dunque, non possa implicare un rimando a qualcosa che è stato già, specie se è stato bello e intenso.
Questo mio primo articolo per Becoming Trendy (a proposito, grazie di cuore ai tanti lettori che m’han dato il benvenuto…sulla fiducia) è perfettamente in linea con questa premessa: oggi parlerò di Valeria Golino, premiata pochi giorni fa alla 72ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, come migliore attrice.
E’ in linea, dicevo, perché adesso per me, attenendomi al momento, sarebbe scontato scrivervi di questa sua ultima interpretazione nel film di Giuseppe M. Gaudino, “Per amor vostro” che le fatto rivincere la prestigiosa Coppa Volpi (la prima volta fu nell’86 con “Storia d’amore” di Francesco “Citto” Maselli).Invece, io e questo magazine amiamo le cose impegnative, così, il primo suggerimento di questa rubrica, cade su un’altra sfaccettatura dell’attrice napoletana in questione, che ha girato oltre settanta film da protagonista in tutto il mondo e con molti grandi autori: il suo primo (e unico ad oggi), coraggioso e appassionato film da regista.E’ una storia coprodotta dal suo compagno e collega Riccardo Scamarcio, interpretata da Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Vinicio Marchioni e Libero De Rienzo, presentata al Festival di Cannes di due anni fa, nella sezione Un Certain Regard. p.s. Ah, se pensate che Valeria si sia “fermata” qui, vi sbagliate: tempo fa ha trovato il tempo per cantare un singolo stupendo con Francesco Bianconi dei Baustelle, intitolato “Piangi Roma”. Ma questa è un’altra storia… Vi lascio alla mia recensione, ci troviamo qui settimana prossima, buon week end!Miele(di Valeria Golino, Ita/Fra 2013) ***
“Devi leggere l’affetto e la tenerezza che ho nel cuore tra le righe e il silenzio, anche a me sono capitate cose grosse per non dire terribili, e io le ho toreate con grazia…” sono parole di Garcia Lorca, che prendo in prestito dai “Sonetti dell’amore oscuro”, per introdurre questo film d’esordio dell’attrice Valeria Golino (alla quale auguro, se sono così, di farne altri ancora).
Mi sono venute alla mente, quando Jasmine Trinca (Irene), che già di suo non fa nulla per risultare simpatica, chiusa dall’inizio della storia nella sua durezza, comincia ad aprirsi incontrando Carlo Grimaldi (Carlo Cecchi, che a settantacinque anni riesce di gran lunga ad essere più sexy degli altri due protagonisti maschili, Marchioni e Di Rienzo, qui un po’ sprecati).
Lei fa un lavoro pericoloso e non legale, ha un nome in codice infatti (quello del titolo): “aiuta” col suicidio assistito i malati terminali; lo sguardo torvo che non l’abbandona dall’inizio, ha piena ragione d’essere, come il dolore che le passa tra le mani, davanti ai suoi occhi, nella sua anima, mentre gestisce barbiturici messicani.
Ci sono delle malinconie che non se ne vanno più, non possono quando vedi morire qualcuno, forse anche solo per questo bisogna viverla la vita, darle importanza. Il corto circuito che le provoca quest’uomo, la sua inquietudine senza rimedio, che non riesce a sopportare (ebbene si, ho citato un capolavoro senza volere), non può lenirlo nessuna spiegazione logica.
Puoi pure sentirti dire che “si perde interesse per ogni cosa, che tutto è talmente noioso, insignificante, che una malattia invisibile non è mica un capriccio”; non ci vuoi stare e siccome sei pervicace più che testarda (lo si legge negli occhi) riesci pure a ribaltare per sfinimento, chi sicuramente in pochi si saranno messo in tasca, come in una partita a scacchi che lasci sul tavolo e riprendi il giorno dopo (“l’ho stancata oggi eh? – altroché, mi ha aggredito fisicamente.” – se lo meritava…”).
Una da fuori schema quindi (“ci sono delle regole, ogni volta sbaglio qualcosa”) non cerca medaglie da appuntare al petto, le donne non sono tutte crocerossine; esistono persone interessanti, si sa, che se le tieni care, diventano speciali perché ti insegnano a campare, soprattutto rispetto al vuoto che ti sta intorno, che ti permea e ti indurisce a prescindere dai guai che passi, quando ci si può sentire stranieri, estranei pure di sé stessi (il pezzo di Christian Rainer a fare capolino qualcosa suggerisce).Poi è vero, quest’ingegnere è proprio un figlio di puttana, ti dice che il piercing è un’imbecillità contemporanea senza scampo, quasi ti piglia a schiaffi come Moretti per l’espressione “ansia allucinante”, ma ascoltando Brassens, ti lascia anche l’idea che la vita sia altro rispetto a ciò che fai. La moschea di Solimano il Magnifico, così, diventa naturale approdo per un finale non scontato.
Combattere i propri demoni, il vivere stesso è un altro fatto ancora.