di Francesco Gori
“Non volevo cadere in una pornografia del dolore”, così ha risposto Valeria Golino in un’intervista a proposito di Miele, il suo esordio come regista, film presente al Festival di Cannes.
Ed è proprio questa la sensazione che si evince dalla visione di una pellicola cruda e diretta, quanto lontana dalla spettacolarizzazione del dolore ultimo dell’essere umano, tanto cara ai nostri telegiornali: la morte. Sì, perché è sulla fine dell’esistenza, sul tarlo che ossessiona l’uomo – unico essere senziente consapevole di dover morire – che la regia si focalizza, mostrandone il lato brutale (ma non nell’atto finale), e quello umano di Miele, l’angelo della morte interpretato da Jasmine Trinca.
Jasmine Trinca è Miele – lepasseurcritique.com
Miele è una ragazza di trent’anni dal presente complesso: non ha solide basi né a livello affettivo – è l’amante di un uomo sposato -, né a livello familiare – la madre è scomparsa anni prima proprio per una grave malattia, passato che come per tante biografie fa leva sul presente -, tanto meno a livello lavorativo, se con questo si intende un qualcosa di socialmente riconosciuto. Perché l’attività di Miele è donare sollievo al dolore, fornendo a chi ne fa richiesta, attraverso l’amico che lavora in ospedale, un farmaco letale che si procura in faticosi voli transoceanici in Messico: il Lamputal, usato per porre fine alle sofferenze dei cani malati, ma efficace anche sul corpo umano.
Le immagini arrivano fin da subito come pugnalate al petto: un’anziana signora è ferma nella scelta della sua fine e saluta il compagno di una vita; un signore di mezza età è deciso nel riprendersi la dignità che la malattia gli ha tolto; un ragazzo ormai incapace di parlare prega la mamma di fargli guardare un’ultima volta dalla finestra. Irene, questo il vero della giovane donna, è sempre lì, con i suoi gesti umani ad affermare che “si può sempre tornare indietro”, a fornire la canzone preferita di accompagnamento, a sollevare i sensi colpa del familiare, e gli stessi suoi per un lavoro illegale fatto col cuore, che lascia però addosso ferite profonde.
Un giorno le arriva la telefonata di un ingegnere 70enne, col quale si incontra. Anch’egli è determinato nel chiudere la parentesi della vita e paga per il farmaco. Miele viene però a sapere che non è malato a livello organico, bensì nell’anima. La depressione dell’anziano e la necessità di riprendersi il farmaco che vuole utilizzare solo in casi estremi di salute, la porteranno ad instaurare un rapporto conflittuale prima e intimo poi con l’ingegner Grimaldi (Carlo Cecchi).
Prodotto dal partner della Golino, Riccardo Scamarcio, Miele colpisce lo spettatore fin dai primi minuti, volando via in 96 di grande intensità, trascinati dalla prova maiuscola di una Jasmine Trinca in versione inedita: androgina, magra e consumata, un affanno fisico costante, un taglio netto dei capelli e uno sguardo duro quanto sofferente, ben lontano dall’immagine morbida di “ragazza della porta accanto” cui ci ha abituati. Irene è incapace di fermarsi, costantemente in fuga dal dolore e dalla morte, che annega nell’acqua del mare di Fregene, nelle trasferte messicane, nei rapporti sessuali occasionali, nelle pedalate per le strade di Roma. Accanto a lei, un Carlo Cecchi prestato dal teatro, superbo interprete della difficoltà del vivere la terza età dopo una vita di successi.
Un tema controverso quello dell’eutanasia o suicidio assistito, trattato nel 2012 da Marco Bellocchio con Bella addormentata, con riferimento preciso al caso Eluana Englaro: ben diversa la matrice del film della Golino – più avvicinabile a quel capolavoro che è Amour di Haneke -, che mostra nell’opera prima tutta la sua classe cinematografica, investendo il lungometraggio di emozioni. I primi piani spesso decentrati, le immagini di spazio aereo alternate all’asfissia dell’impossibilità del destino, associati ad una colonna sonora da brividi fanno di Miele un film da non perdere. Quest’ultima è tradotta in immagini dal lettore MP3 della protagonista, in ogni azione significativa ecco la musica più adatta, con una notevole varietà di generi: si distinguono in particolare quella elettronica di Caribou (Found out) e quella cantautoriale di quel Georges Brassens (Les Sabots D’Helene) tanto caroa Fabrizio De Andrè.
Quel che si deduce, come ha detto la stessa Golino, è una posizione non assolutistica sull’argomento, l’unica certezza è che “ciascuno di noi ha il diritto di scegliere in merito alla propria vita, persino quando farla finita”.
Liberamente ispirato al romanzo di Mauro Covacich, A nome tuo, Miele è un degno rappresentante del cinema italiano al Festival di Cannes.
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