Quando scende il vento freddo, non c’è perdono. Fanno male le mani sul badile, quando scende il vento di tramontana. Per vincere quel dolore che batte alle tempie e che rende pazzi ci si incurva ancor di più sulla terra, come a cercare protezione, come a voler sparire.
Sono mattine di freddo intenso. Le ultime di marzo, le più cattive: quelle che sfogano sul collo e sulla nuca tutta la loro prepotenza. Ogni tanto, in una breve pausa di riposo, si guarda in alto, verso il sole rosa che si nasconde dietro basse nebbie. Tutto, i pali infissi nelle zolle e le prime avvisaglie verdi della vite, tutto è avvolto nel deserto che fa il gelo sulle cose. E allora si prosegue, a testa bassa, per dimenticare la sofferenza, la fame ed il dolore che alla lunga diventano una cosa sola, una sola tenaglia di ferro sulla carne.
In quel trambusto d’inverno non si aveva più coscienza di una vita. Si continuava così, per forza propria, a fare tutte le cose che si facevano di solito, con il consueto ritmo, anche se intorno impazzava la guerra, ed era la più efferata, dei nazisti in fuga.
Passando facevano come le folate pazze che entrano nelle cucine, specialmente d’estate: spazzavano tutto. Rastrellavano i casolari, ammazzavano senza una ragione chi capitava loro a tiro. E così ci si era abituati ad essere pressoché trasparenti, a camminare con il viso puntato a terra, come se si fosse stranieri nella terra propria. Ma le terre aspettavano, come sospese dietro una vetrata, di ricominciare a vivere. E allora ci si alzava alle tre, si caricava il somaro e si andava, per una mezza pagnotta di pane, a farsi uscire il sangue dalle palme, come i promessi santi, senza alcuna certezza di settimo cielo.
Quella mattina il cielo era diverso: si poteva oltrepassare con lo sguardo. Vedevi Venere sbrilluccicare come una starlette di varietà così distante e incurante, così sicura di sé. Così, come tutte le mattine, dopo una sommaria lavata si caricava il mulo, che sfrogiava aria umida e rassicurante, si issavano gli utensili oltre le sponde, si saliva e si cominciava ad andare, trotterellando piano, sempre attenti a non apparire troppo, come se si vivesse dietro uno strato di carta velina. Talmente freddo che ogni cosa attorno appariva con una nettezza sconcertante. Potevi vedere ogni crepa del muro, ogni buca della strada, il vallone scendere casa per casa, fino a congiungersi con il mare, ad una ventina di chilometri da lì.
Abbandonando il paese saliva sempre nella gola una strana sorta di angoscia. Tutti, a quel punto, si chiedevano se sarebbero tornati a casa e se fossero tornati cosa avrebbero trovato. Svoltando l’ultima curva della carraia il lungo rettilineo che portava alle campagne era di un nitore strabiliante. Migliaia di capelli, di biondi capelli giovani vibravano al vento gelato.
Elio strabuzzò gli occhi: si trattava davvero di capelli! I capelli furono la prima cosa che gli arrivò allo sguardo: chiari, nitidi, certi. E poi dopo i capelli il capire che erano capelli di teste: centinaia di teste: teste giovani, disordinatamente sparpagliate sulla strada. Piccole e grandi. Teste di contadino, teste di apprendista meccanico o di fornaio. Testa giovani. Teste attaccate a corpi. Corpi in divisa. Divise grigie. Divise tedesche. Migliaia di tedeschi riversi sullo stretto sentiero per la campagna. Erano corpi gonfi.
La campagna aspettava come sotto una carta protettiva: il freddo dell’inverno.
Elio si disse che il carretto doveva passare. Così il carretto faceva un metro e lui davanti a spostare quelle teste con il piede, a volte aiutandosi con il badile. Teste giovani. Teste attaccate a corpi. Corpi in divisa.