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Migrazione e salute mentale

Da Raffaelebarone

Promuovere  politiche e servizi di salute mentale transculturale nella comunità locale

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Nella mia pratica clinica succede sempre più spesso di prendere in cura persone proveniente da diverse parti del mondo. Arrivano sempre più numerosi soprattutto dopo le rivolte in Nord-Africa.

Prima arrivavano dalla Tunisia, dal Marocco e dai paesi dell’Europa dell’ Est( Polonia, Ucraina, Albania, Romania) dallo Sri Lanka  e dall’Argentina. Adesso arrivano dal Pakistan, Iran, Egitto,Afganistan, Libia, Somalia Eritrea, Armenia. Prima arrivavano solo dai paesi d’origine , adesso arrivano anche da altri Paesi Europei( Germania, Grecia) in quanto non ottenendo asilo politico arrivano in Sicilia come rifugiati o richiedenti asilo.

Si impone sempre con maggiore necessità l’attivazione di servizi di salute mentale transculturale e dare una cornice organizzativa e culturale al fine di dare risposte utili ed appropriati favorendo processi di inclusione ed evitando forme violente di esclusione sociale soprattutto per chi è affetto di malattia mentale in quanto soggetto fragile. Negli ultimi anni sono nati diverse associazioni culturali, imprese sociali, ONG che si occupano di migrazione. Per sviluppare questa riflessione farò riferimento  alle esperienze e agli scritti di due miei amici  Giuseppe Cardamone e Salvatore Inglese che sono portatori di pratiche e teorie fondamentali per un corretto approccio alla tematica.. Recentemente hanno pubblicato un volume dal titolo “Déjà Vu” Tracce di etnopsichiatria critica. Verranno ,in ottobre, a Palermo a presenta il libro e spero di poterli fare arrivare anche a Caltagirone per un seminario di studi.

Molti studi di psichiatria transculturale si concentrano sul rapporto tra malattia mentale e migrazione, perché spesso la migrazione pone l’individuo in una condizione di particolare fragilità. Questa difficoltà non può essere ridotta ad un fenomeno psicologico-psichiatrico, perché deriva da una condizione sociale e culturale prima di tutto. Molti dei migranti che giungono in Europa arrivano da situazioni politiche e sociali estremamente difficili, e non di rado hanno affrontato esperienze ad elevato potenziale traumatico (violenza, torture, perdita dei familiari, distruzione della propria abitazione, esodi forzati, guerre). Il contesto di adozione inoltre spesso colloca la persona migrante in una situazione di non-accoglienza “programmatica”, che appiattisce differenti percorsi e bagagli culturali in una categoria unidirezionale. E’ fondamentale ricordare, accostandosi a questi temi, che l’appartenenza culturale è un fattore fondante dello sviluppo biologico, psichico e sociale di un individuo. Ogni cultura genera i propri membri dotandoli di un linguaggio, simboli e di oggetti che ne formano la percezione, l’interpretazione e l’esperienza del reale. Una persona allontanata dal proprio contesto culturale  di provenienza ed inserita in una realtà che ignora la sua appartenenza ad una cultura Altra, non riconoscendolo in quanto membro di una specifica comunità, ma unicamente come un individuo estraneo la cui identità non ha spazio, rischia una “disaffiliazione” traumatica dalla propria matrice culturale. Questo scollamento dalla cultura d’origine incrina le radici del processo identitario, lasciando l’ individuo in una condizione di solitudine che prima di essere psicologica e  culturale. Oggi il rapporto particolarmente complesso fra mondo globale e mondi locali ha reso i differenti contesti culturali locali fluidi e permeabili dai processi globali (Baumann). La mobilità dei processi sociali, politici, personali favorisce nuove identità, una “creolizzazione” che se da una parte sembra una omogeneizzazione degli oggetti culturali, dall’altra contiene in sé la riaffermazione delle differenze dei tanti mondi locali.( Giuseppe Cardamone e Chiara Matteini)

Psichiatria transculturale è stata la prima definizione coniata da Georges Devereux per indicare una metodologia di ricerca in grado di illuminare il ruolo della cultura nella determinazione dei fenomeni mentali funzionali ( tratti psicologici) e disfunzionali ( tratti psicopatologici) espressi a livello individuale e collettivo. Il postulato originario della psichiatria transculturale- la cui sigla identificativa sul piano disciplinare è stata successivamente corretta dallo stesso Devereux in etnopsichiatria o in psichiatria meta culturale- afferma che non è possibile immaginare la costruzione e la costituzione dello psichismo umano senza il concorso puntuale della cultura.(Salvatore Inglese)

Le questioni teoriche, cliniche, metodologiche e antropologiche agitate e difese da Nathan si accoppiano inevitabilmente con quelle dedicate all’organizzazione dei servizi di assistenza e cura. La questione principale è rappresentata dalla riflessione intorno alla necessità di allestire in Italia servizi specificatamente dedicati al trattamento dei disturbi mentale dei migranti. In questa direzione vorrebbe muoversi una parte consistente degli psichiatri culturalmente orientati. L’insidia contenuta in questa posizione è di istituzionalizzare la costituzione di una strana popolazione di specialisti in una disciplina dallo statuto scientifico incerto che, in realtà, si auto legittimano ancor prima di avere agito effettivamente sui problemi. In questo atteggiamento auto assertivo potrebbe nascondersi un’inutile spinta corporativa che vorrebbe arrivare alla costituzione di un corpo separato e sedicentemente competente di specialisti della salute mentale migrante. Inoltre, la costruzione di aree specialistiche provoca ulteriori problemi di isolamento dei migranti dal loro originario contesto culturale di riferimento. Il problema più grande ,in realtà, è  rappresentato dalla necessità che i migranti  arrivino a fronteggiare il disordine della patologia utilizzando gli strumenti terapeutici inventati nelle proprie culture e maneggiati dai loro naturali rappresentanti. Una impostazione siffatta apre una serie di problemi teorici, tecnici, giuridici ed etici che giunge a problematizzare la posizione stessa della medicina istituzionale.

Si tratta di promuovere un’analisi critica del sapere occidentale generale alla luce delle conoscenze etnoscietifiche. Di sensibilizzare e formare l’operatore della salute alla variabilità culturale, al rispetto delle differenze e a favorire la pratica di uguali opportunità di fruizioni ed esercizio delle terapie culturalmente determinate. Di valorizzare le risorse disponibili sul territorio, soprattutto quelle non specialistiche e non mediche, sostenendo soprattutto quelle direttamente legittimate dagli utilizzatori. Di facilitare la costituzione di raggruppamenti di auto aiuto che favoriscono l’accesso ai servizi e la loro programmazione.  Di sostenere un sapere capace di progredire attraverso sfide locali  ma che riesce  ad avere nel suo stesso atto costitutivo e programmatico una visione del mondo- di tutto il mondo- anche di quello invisibile e solo apparentemente silenzioso.(S. Inglese).

Una politica di salute mentale in una società multiculturale non può prescindere da un’ottica di comunità, che ridefinisca il paziente come un “soggetto esperto”, autorevole detentore di competenze specifiche relative al gruppo umano a cui appartiene, e a quella specifica visione che quella comunità ha costruito intorno alla salute, alla malattia ed alla cura. Parte di questo riposizionamento del setting clinico e della presa in carico è operabile attraverso  la funzione della “mediazione linguistica-culturale” che riportando la comunicazione del paziente all’interno della lingua madre, consente al flusso del pensiero di costruirsi senza tradire la realtà degli oggetti portati all’interno dello spazio terapeutico. L’introduzione del mediatore investe “la totalità della relazione terapeutica” invertendo la posizione di esperto (Cardamone, Matteini).

Questa ispirazione costituisce l’impianto delle Linee di Indirizzo Nazionali per la Salute Mentale che devono essere recepite e applicate dalle Regioni Italiane. Esse invitano a promuovere gruppi di iniziativa nel campo della multiculturalità privilegiando il lavoro etnopsichitrico, l’interazione con le lingue originarie dei pazienti e le collaborazioni multi professionali. La Linee non solo riconoscono la sussistenza del problema assistenziale delle popolazioni straniere vulnerabili, ma incitano a recuperare un ritardo culturale e scientifico da sempre intollerabile. L’obiettivo è di privilegiare l’ approccio comunitario per generare effetti di comunità attraverso la tessitura di nuovi legami solidali.  Questa impostazione deve poter diventare pratica quotidiana nei diversi luoghi d’ incontro dai centri di accoglienza ai servizi di salute mentale, da enti pubblici a enti del privato sociale alle organizzazioni culturali. Deve poter diventare cultura clinica e di presa in carico sia di professionisti specialisti (psichiatri, psicologi, assistenti sociali, educatori,infermieri) che di operatori sociali e volontari. Fondamentale è individuare e promuovere i mediatori linguistici fra persone che provengono dagli stessi luoghi e nazioni dei soggetti richiedenti e necessitanti di interventi di salute mentale.

Ritengo utile la lettura del libro di Giuseppe Cardamone e Salvatore Inglese

Dèjà vu

 Tracce di etnopsichiatria critica Edizioni Colibri’

 

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