Tracce | Mihailo Karanovic – Mirsad Herenda | Galleria Bianca Maria Rizzi & Matthias Ritter | 02-03-16
Questo testo poteva intitolarsi Dove sono in questa storia, ma l’ufficio stampa di Emir Kusturica (o del suo editore italiano) avrebbe risposto coi crediti del copyright. E allora: Tracce, ‘ché il senso è lo stesso. Credo che Mihailo Karanovic e Mirsad Herenda si…”troverebbero” molto nell’allure evocata dalla domanda/non domanda, dal momento che questa mostra è un diario visuale in cui ciascuno dei due artisti ha lasciato tracce del suo sentirsi apolide malgrè lui.
Quadri e sculture sono depositi della loro anima: un lascito artistico che è ora un po’ anche “nostro”, perché forse mai come in questo caso “guardare un quadro” e “guardare una scultura” significa accogliere un invito. Si innescano i meccanismi della memoria e mi accorgo che le tracce di Karanovic e di Herenda appartengono in parte anche a me, sia pure in un modo smisuratamente meno drammatico -e meno creativo, va da sé.
Entrambi i gruppi di opere di questa mostra sono simboli di un’esperienza di guerra e sradicamento, quella che sconvolse i Balcani all’inizio degli anni Novanta e quella “umanitaria” della NATO per buttare giù Milosevic dalla ex Jugoslavia.
Tracce. Io per esempio ricordo ancora i briefing quotidiani di Jamie Shea, il portavoce della NATO col compito di aggiornare la stampa mondiale sull’andamento dei bombardamenti, 78 giorni di pioggia di bombe senza sosta su Belgrado: ne ricordo il volto decisamente “tipico”, un po’ da attore un po’ da musicista. Il suo plasticismo performativo era ineccepibile, bisogna dirlo: impossibile non stare attenti quando parlava lui nella sala stampa della NATO.
Un altro flash che conservo nella memoria è la foto pubblicata dal Corriere della Sera il primo giorno in cui uscì a colori, maggio 1999, bombe su Belgrado e in prima pagina il volto di un’anziana serba mentre in lacrime accende una candela in una chiesa ortodossa.
E del resto sono impresse nella mente di chiunque abbia più di trent’anni le immagini del massacro di Srebrenica o della distruzione del ponte di Mostar, per non parlare della gente in strada nell’era Vuk Drašković o dei corpi di Boško e Admira trovati abbracciati vicino al ponte Vrbanja a Sarajevo: salti temporali e politici ed etici di pochissimi anni durante i famigerati -in tutti i sensi- Novanta.
Le opere di Mihailo Karanovic e Mirsad Herenda, diverse nella loro materialità, sono tuttavia un perfetto connubio: in questo caso non vale il detto per cui gli opposti si attraggono, anzi, gli acrilici di Karanovic e il ferro di Herenda si sposano nella loro assoluta, individuata e singola diversità nel circolo dell’espressività che li accomuna.
Ma, come capita sempre quando si ha a che fare con il prodotto della creatività, il senso dell’opera d’arte è sempre simbolico e non a caso il filosofo Ernst Cassirer titolò il suo libro (di-Estetica-e-non-solo) Filosofia delle forme simboliche, perciò il “messaggio” è sempre obliquo, parte dal qui e ora ma arriva all’universalità.
Iniziamo col pittore. Vedete alberi neri che si stagliano come baluginii oscuri su di un fondo scabro percorso da accenti, segni, concrezioni e parole. Il nero ha un valore semantico diretto e indiretto, segnico e simbolico: Karanovic dipinge alberi neri per simbolizzare il certificato di morte della Natura, ma sono anche paragonabili ai santi dalle icone. Non solo: essi rappresentano il controcanto di un’etica che non c’è più e in questo senso possiamo dire che c’è tutto Karanovic in questa nuova serie detta Herbarium –si pensi alla serie di qualche anno fa SUPER FUTURO, scenario alla Blade Runner che anticipava nel presente l’obbligo della scelta fra Bene e Male. Molti Herbarium presentano date (16-06, 21-02…) e anni solari (1992, 1999…) che coincidono con momenti particolarmente significativi della biografia dell’autore, trattandosi di annotazioni intrinsecamente connesse ai bombardamenti negli anni Novanta ma non solo, perché a volte il discorso si amplia agli anni dell’atomica (1952, 1955, 1945) e al disastro di Chernobyl (1986).
Un accentuatissimo biografismo che si estende dai limiti dell’autobiografia applicandosi a un discorso di respiro più universale che da l’impronta di sé anche alla produzione di Mirsad Herenda: materiale povero ma non da poveraccisti e nemmeno da poveristi embedded (qualunque rifermento all’Arte Povera è puramente voluto), ferro saldato e gocce di metallo che si depositano a formare il sottobosco di drammatici “paesaggi” silvani sormontati da alberi che coi loro rami piegati ad arco sembrano violentemente flessi da un vento vorticoso. Anche Herenda ci parla della guerra, di una guerra non sua, che l’ha indotto a cercare negli anni il suo Heimat, la sua “casa”, la sua “patria”. Le sue sculture sono carne viva, testimonianza di un dramma che si estese fin da subito dai confini territoriali e che interessò la comunità internazionale tutta: qui abbiamo un tributo alla Natura, anche in questo caso lontano anni luce dal cliché moraleggiante e ambientalista, ma se nel caso di Karanovic abbiamo un certificato di morte della Natura, nelle sculture di Herenda essa diventa una specie di culla, il tributo a una dimensione protettiva perché i boschi salvarono per davvero l’artista e i suoi cari dalla morte durante i bombardamenti.
Anche in questo caso però ci troviamo di fronte a una produzione d’arte che ha anche un messaggio forte, quindi un codice morale se vogliamo dire: l’uomo si rinnova completamente grazie all’esperienza e il valore simbolico di questo messaggio risiede proprio nell’uso del ferro, con le gocce che si depositano naturalmente sulle sculture o al fondo di esse a formarne il sottobosco da cui, anche qui, possono egualmente germogliare il Bene e il Male.