“L’è un milanes arius”, sussurrava la mia nonna, sempre un po’ tranchant, quando al suo orecchio allenato (e un po’ snob) di meneghina doc arrivava per caso qualche frase pronunciata da una persona arrivata in città dalla provincia, dalla campagna, magari dalla Brianza.
Anch’io mi accorgevo delle differenze nei dialetti, apparentemente, ma solo apparentemente, simili, sentivo le vocali pronunciate in modo diverso e capivo che, anche se comprendevo le parole, quello non era il dialetto che si parlava in casa mia.
Erano i dialetti leggermente diversi dei milanesi “arius” (ariosi) e a me quell’aggettivo “arius” faceva un effetto particolare, mi parlava di campagna, di campi bordati di filari di alberi, di aria aperta, di quell’aria aperta che a me, bambina di città, mancava sempre un po’ e che ritrovavo quando mio padre ci portava a trovare i suoi amici d’infanzia che vivevano in una grande cascina dalle parti di Inverigo.
Allora correvo sui prati, rotolavo giù dalle balze delle colline e mi sporcavo di fango, di terra e di erba e respiravo a pieni polmoni quell’aria libera e aperta, profumata dei mille odori della campagna.
Le vicende del lavoro e della vita mi hanno portato a vivere fuori dalla città e così oggi sono anch’io un po’ “ariosa”: lo comprendo veramente solo in giornate come questa, con il cielo limpido e i primi tepori e la campagna che si spalanca fino all’orizzonte, bordata dalle montagne ancora coperte di neve.