Milano. Decido al volo, all’improvviso. Guardo gli orari dei treni mentre mangio un pomodoro. Mi piace sempre il cielo che si fa scuro quando entri in stazione. Parto con l’idea che ho bisogno di fare due passi, non qui. Pavia-Milano è una distanza piccolissima, ma è una distanza. Un paio di scarpe, una maglietta, un regalo per mio fratello. Ma più che altro mi guardo attorno, circondata da persone che corrono o passeggiano, estremi. Ritrovo quell’indifferenza metropolitana che si incontra spesso all’estero.
Un uomo ha appoggiato la bicicletta in mezzo a uno spartitraffico e seduto su uno sgabello pieghevole disegna. Gli passano accanto i tram, rumorosi, pieni. E un cartello ricorda che devono andare a passo d’uomo. Penso ai numero incidenti degli ultimi mesi, mi chiedo se il cartello c’è per questo. O se c’era già. Una ragazza ha una maglietta con una scritta sulla schiena che attira l’attenzione: “E tu in cosa credi?”. Ne vedo un’altra con la t-shirt stile Minetti (“senza la t-shirt sono ancora meglio”). Non si parla una sola lingua in questa città, rumorosa ma non abbastanza da non permetterti di ascoltare i suoni di voci di paesi diversi. C’è un po’ di tutto, giacche e cravatte, abiti eleganti, turisti con le mani piene di sacchetti, colori, eccentrici, moda, vecchie signore. Una bici dorata, una bici che cade scivolando lungo il palo a cui è legata. Sono anche entrata in duomo. Mi colpisce l’esercitoall’ingresso, il soldato in mimetica che mi dice “open” e controlla il contenuto della borsa. Dentro è buio, ti chiedono di fare silenzio. E allora, silenzio.