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Milk (2008) di Gus Van Sant è un inno alla libertà, non tanto quella individuale, quanto piuttosto quella di un intero mondo. Il protagonista, il politico americano Harvey Bernard Milk (1930-1978), fu il primo uomo apertamente omosessuale a ricoprire una carica pubblica - quella di supervisor, più o meno consigliere comunale a San Francisco - e pagò con la vita la sua militanza. Fu, infatti, assassinato dal suo maggiore avversario, Dan White, che osteggiava in modo deciso una legge antiomofobia.
Il film di Gus Van Sant, basato sulla sceneggiatura di Dustin Lance Black, prova a tracciare un ritratto dell'uomo Harvey (un insuperabile Sean Penn) a partire dai suoi quarant'anni (1970) e del suo incontro con lo splendido Scott (James Franco): quello che sembrava solo un abboccamento in metropolitana inaugura in realtà l'impegno attivo nella lotta contro i raid polizieschi e le politiche omofobiche, in particolare della cantante e politica Anita Bryant (se stessa in filmati d'epoca) e del suo collega, il già citato Dan White (Josh Brolin). Scott è solo il primo di tanti stimoli a iniziare una nuova vita, anche se forse il più importante: presto, si uniranno Cleve (Emile Hirsch), Danny (Lucas Grabeel), e altri, tra i quali spicca a un certo punto la figura di Anne Kronenberg (Alison Pil), lesbica efficientissima capace di organizzare al meglio le campagne di comunicazione di Milk. Insieme a tanti compagni di lotta, si segnala per il suo ruolo delicato Jack (Diego Luna), un ragazzo fragilissimo e senz'altro poco equilibrato, entusiasta e geloso fino all'ossessione, che finirà con l'influenzare in modo determinante il vissuto di Harvey.
Se c'è un merito che mi sento di riconoscere a Milk di Gus Van Sant è il perfetto equilibrio tra vita pubblica e mondo affettivo del protagonista. L'uomo, qui, non cerca di costruirsi un suo mondo privato che scimmiotti in qualche modo o che competa con la famiglia tradizionale: il film, che ha come tema portante la parità dei diritti tra eterosessuali e omosessuali, riesce a rendere conto con pregevole esattezza storica della figura pubblica di Harvey Milk. Se è vero, infatti, che chi scrive non ha le conoscenze documentali per approvare o meno il ritratto che emerge in questo film, è innegabile che regista e sceneggiatore sono stati molto lucidi nella loro idea del personaggio e che la loro costituisce, nell'insieme, una voce in capitolo nella complessa ricostruzione di ciò che è la vita di un essere umano e di un periodo.
Il merito è, a mio avviso, ancora maggiore se si considera che qui Milk non è visto tanto in sé, quanto piuttosto nella sua veste di leader di un movimento che cercava una voce per esprimersi: il film è, dunque, per noi oggi ciò che Harvey Bernard Milk è stato per gli omosessuali americani degli anni '70, una finestra su un intero mondo. Nel loro caso per venir fuori (l'outing), nel nostro per entrarci e capire qualcosa in più. Girato originale e inserti video d'epoca si miscelano così, attraverso lo strumento della televisione sempre presente in scena, in un film che ha nell'impegno civile, nel coraggio e nella determinazione di una comunità i suoi valori e i suoi esiti più positivi.
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