foto da http://www.ilfattoalimentare.it
2 DICEMBRE – Cosa centra il Mali con Cremona? Che cosa ha in comune il Camerun con l’Austria? Il Burkina Faso cosa può mai condividere con gli Stati Uniti?
La risposta è strana, semplice, pulita e ci parla di una globalizzazione che, a volte, e per fortuna, sceglie di essere anche solidale.
Mille orti in Africa. Questo solo il marchio e il sogno dell’associazione Slow food, che pensa molto e in grande. Creare orti nelle comunità, nelle scuole, nelle periferie delle città africane per aiutare gli abitanti a produrre il loro cibo e per tutelare gli interessi economici locali non legandoli alle multinazionali straniere. Questa l’idea che dal 2011 ad oggi si è incredibilmente concretizzata in ben 25 paesi del continente nero. Oggi 677 orti sono regolarmente adottati e supportati economicamente dalle più varie e imprevedibili generosità internazionali che vanno da quella della Corea del Sud a quella di Monza, fino a quelle degli Usa e della Francia.
Gli orti sparsi nelle terre rosse e scarne dell’Africa stanca, sono ora vessillo di ottimismo oltre che modello concreto di agricoltura sostenibile con i loro compostaggi e preparati naturali e con la loro tutela della biodiversità. La loro presenza si presta ad essere e a divenire laboratorio per una nuova comunità dove le competenze degli anziani e dei contadini sono promosse e apprese dalla generazione più giovane. Inutile dire che tale condivisione favorisce il progressivo affrancamento dalla dipendenza agli aiuti umanitari e renderà, forse, possibile una sovranità alimentare in grado di scegliere cosa coltivare e cosa mangiare. L’orto, dove tutto è auto prodotto e dove le erbe medicinali convivono amabilmente con la verdura e gli alberi da frutta, garantisce infatti ogni giorno prodotti freschi e genuini.
Non per niente nel 1960 il continente africano riusciva ad avere una agricoltura di sussistenza che, in alcuni casi, consentiva addirittura l’esportazione. Ma , gli stessi paesi che prima vantavano una, per quanto debole, autarchia, si sono trovati in questi ultimi tempi, costretti ad importare alcuni alimenti proprio a seguito dell’abbandono dell’agricoltura tradizionale, basata sulle varietà locali , a favore, invece, di una sorta di agroindustria che si traduce in imponenti monoculture create grazie all’uso copioso di fertilizzanti e pesticidi, sempre costosi e spesso lesivi del terreno.
Solo attraverso piccole iniziative locali è possibile tornare a valorizzare la fertile terra africana in maniera sostenibile. E si inizia con il responsabilizzarne gli abitanti. Slow Food lo sa bene. E ha fatto di questa considerazione una delle verità principi della sua campagna. Non mancano infatti gli orti con evidenti finalità didattiche costruiti in complessi scolastici come nel caso dell’Uganda, della Costa d’Avorio e del Kenya. Proprio in una scuola primaria keniota, a Mukinya, è stata avviata la coltivazione di mezzo acro di terra che viene diviso e affidato, ogni anno, ad alcuni studenti tra i 9 e i 12 anni i quali coltivando amaranto, zucche, sorgo e imparano in questo modo a praticare l’agricoltura organica e a gestirne le sementi. Così i prodotti dell’orto riescono a diventare un apporto importante e aggiuntivo ai pasti spesso approssimativi e limitati dei piccoli studenti.
“Il primo uomo fu un agricoltore e ogni nobiltà storica riposa sull’agricoltura” diceva Emerson e, forse, adesso l’Africa dei giovani sta iniziando a crederci davvero .
Miryam Scandola