"Millennium - Uomini che odiano le donne" di David Fincher: la recensione
Creato il 09 febbraio 2012 da Luca Ottocento
A poco più di due anni di distanza dalla versione scandinava di Niels Arden Oplev (Uomini che odiano le donne), arriva nei cinema italiani il nuovo adattamento cinematografico firmato da David Fincher del primo capitolo della fortunata saga letteraria di Stieg Larsson. Tre settimane fa vi avevo già scritto che sulla carta le atmosfere delle pagine dello scrittore svedese scomparso anzitempo nel novembre del 2004 si adattavano perfettamente allo stile e alla poetica del regista di Seven, Fight Club, Zodiac e The Social Network (questi a mio avviso i suoi titoli più riusciti). Dopo la visione di Millennium - Uomini che odiano le donne, tutto ciò mi è risultato evidente nei fatti (o, per meglio dire, nelle immagini). L’unico handicap per lo spettatore europeo (che a differenza di quello americano conosce bene l’originale del 2009) è la vicinanza cronologica tra i due film. Va da sé che l’opera di Fincher non può far certo leva sui colpi di scena di cui si alimenta la storia di cui sono protagonisti il giornalista Mikael Blomkvist e l’hacker Lisbeth Salander o tanto meno sulla suspense legata al procedere della loro appassionante attività investigativa. Il che naturalmente non è un problema di poco conto.
Eppure, l’adattamento fincheriano è piuttosto interessante (più dell’originale, che comunque è un buon film) sia per lo stile e la messa in scena che per la delineazione dei personaggi e degli ambienti (ottima la fotografia di Jeff Cronenweth). Il mestiere del quasi cinquantenne cineasta nordamericano è ben visibile e si apprezza in modo particolare (molte le sequenze degne di nota e che marcano un netto salto in termini qualitativi rispetto al lavoro di Oplev) e le interpretazioni sono tutte di pregevole fattura. Per quanto gli omologhi svedesi (Michael Nyqvist e soprattutto Noomi Rapace, ambedue ora approdati ad Hollywood) si erano dimostrati all’altezza, Daniel Craig e Rooney Mara risultano davvero in parte e, coadiuvati dalla sceneggiatura dell’abile Steven Zaillan, riescono a conferire maggiori profondità e umanità ai personaggi. Se Craig nei panni del giornalista investigativo Blomkvist offre la migliore interpretazione della sua carriera, Rooney Mara (candidata all’Oscar) sorprende per come dà vita e corpo a un personaggio complesso e più fragile e adolescenziale di quello interpretato dalla Rapace. Prendendo invece in considerazione gli attori secondari, non c’è proprio storia: Christopher Plummer, Stellan Skarsgård e la stessa Robyn Wright, nonostante il piccolo ruolo, danno uno spessore di gran lunga superiore ai loro personaggi rispetto agli attori della versione svedese.
Il grande problema di Millennium - Uomini che odiano le donne, però, come già accennato, risiede nella sua eccessiva prossimità temporale all’originale. Visto il tipo di operazione (lontana ad esempio da quella attuata da Matt Reeves in Blood Story, che si distaccava nettamente da Lasciami entrare modificandone con evidenza la struttura narrativa), è più che lecito pensare che il film sia stato pensato principalmente per il pubblico statunitense che non aveva avuto occasione di vedere l’opera scandinava. Questo è un aspetto che non può affatto essere eluso nel contesto di una riflessione sulla pellicola di Fincher e che, d’altronde, va colto come la causa maggiore del non eccezionale risultato al botteghino del film in molti paesi europei.L’indubbio coinvolgimento esercitato a tratti da Millennium - Uomini che odiano le donne, dovuto in gran parte alle ottime interpretazioni, alla convincente scrittura dei personaggi e alla maestria della messa in scena, va dunque inevitabilmente a interrompersi bruscamente soprattutto nei momenti in cui invece dovrebbe sprigionarsi il più elevato tasso di pathos: le svolte narrative sono infatti ben note e conosciute al pubblico europeo in generale e a quello italiano nello specifico, vista anche la recente messa in onda televisiva della mini-serie ricavata dai tre lungometraggi di produzione scandinava.
La sensazione è quindi che lo spettatore che conosce già la storia avendo visto il film del 2009, se non particolarmente sensibile alle componenti dello stile e della messa in scena (la cerchia si restringe quindi a cinefili, studenti di cinema e appassionati della settima arte), non trarrà grande godimento da questa nuova versione che, a solo un paio di anni di distanza o poco più, chiede al pubblico di appassionarsi alle vicende di un film di quasi due ore e quaranta che sul piano narrativo si discosta ben poco dall’originale (anche se in modo piuttosto intelligente, attraverso una serie di dettagli più o meno rilavanti). Doveroso accenno finale alla potentissima sequenza dei titoli di coda accompagnata dall’ipnotica versione “eccessiva” di Immigrant Song dei Led Zeppelin, riarrangiata per l’occasione da Atticus Ross e Trent Reznor e cantata da Karen O degli Yeah Yeah Yeahs.
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