Ci sono vari modi per far evaporare il senso e la memoria di una data che nell’immaginario collettivo rappresenta una testimonianza, magari retorica e nazionalpopolare, ma forse proprio per questo appartenente e radicata nell’autobiografia di un paese.
Una maniera è consegnarla al contesto delle celebrazioni commerciali, tra cioccolatini, spogliarelli a Centocelle e libere uscite in pizzeria.
Un’altra consiste nella metamorfosi temporanea: “sciur paron dali beli braghi bianchi” che regalano striminzite mimose, come squinzie vaporose che punteggiano le loro presenze sul web di cuoricini, canzoncine, confessioni intimiste tra Prèvert e Peynet, che per via di un occasionale trasformismo e di un affiorante revanscismo, sputano più sulle mimose che su Hegel e su una festa considerata ormai oscenamente conformista e vuota.
Così come spesso succede alle nostalgiche della polis – fosse un’utopia, un’appartenenza, una speranza, una lotta, o tutte queste passioni insieme – ho un certo rimpianto per quelle giornate di festa e di lotta, per l’ineluttabile visione di film sovietici o cinesi, per l’odore cimiteriale dei mazzolini offerti dai sindaci dei paesi della riviera del Brenta (tra l’altro nel solco della tradizione nove sindaci su dieci continuano a essere maschi), per il pistolotto nella saletta del comune davanti a una platea di uomini accondiscendenti per un giorno e, dietro, le donne confuse e intimidite per la concessione di un’evasione dalla cucina.
Quelle che poi invece, fuori dalla commemorazione, incontravi rabbiose, frustrate, ferite, indomite, ribelli come dovremmo ricominciare ad essere.
Era l’8 marzo 1908, quando a New York le donne operaie di una fabbrica tessile decisero di scioperare per protestare contro le condizioni inumane in cui erano costrette a lavorare. Era l’8 quando venne appiccato il fuoco a quella fabbrica e le 129 donne bloccate al suo interno morirono.
Era l’8 marzo 1914, quando a Berlino venne dedicata una settimana alle donne.
Era l’8 marzo 1917, quando a Pietrogrado lo sciopero delle donne operaie di un’altra industria tessile segnò l’inizio della Rivoluzione russa.
Era l’8 marzo 1923, quando in Cina venne organizzato il primo incontro delle donne studentesse e venne celebrata la prima giornata internazionale delle donne lavoratrici.
Era l’8 marzo 1930, quando a Berlino, durante la giornata internazionale delle donne, altre donne ebbero il coraggio di gridare lo slogan «contro il terrore nazista, per il socialismo e la pace».
Non so in che giorno del 1910, Rosa Luxemburg propose di dedicare la giornata dell’8 marzo alla memoria di quelle prime donne che avevano avuto il coraggio di combattere per i propri diritti e per i diritti di tutte le donne che sarebbero venute dopo di loro. Lei, invece, venne assassinata per il suo impegno il 15 gennaio 1919 e per aver sostenuto nelle azioni che «La libertà è sempre la libertà di pensare diversamente».
È che la libertà è facile da conquistare, il difficile è conservarla. Perché anche se è indivisibile, non si sa come ogni tanto se ne perde qualche frammento per strada. È come i diritti, non dovrebbe avere né gerarchie, né primati, né segmenti più o meno rilevanti, né deleghe. Eppure di continuo ci viene chiesta, imposta, proposta come inevitabile o desiderabile qualche rinuncia in nome dell’opportunità o della necessità. Come se fosse ragionevole prorogare legittime aspettative, vitali, e essenziali anche se apparentemente immateriali, in nome di risposta a bisogni concessi come elargizioni o favori.
Deve esserci qualcosa di tremendamente distorto nella nostra capitolazione davanti a una pretesa necessità ostentata come una bandiera di resa, se un milione di donne che avevano manifestato lo sdegno per l’osceno commercio dei corpi femminili, merce offerta e comprata negli scambi clientelari, ostentati nella loro fattezze più perentorie e reificate dai media, sono remissivamente tornate nelle loro redazioni, nei loro uffici, nelle loro case remissivamente consegnate al pragmatismo dei tecnici, apparentemente vinte dalla minaccia intimidatoria che ribellarsi alla lesione della dignità e ai diritti di persone, di lavoratrici e di cittadini possa essere un pericoloso atto di disfattismo.
Avevamo sbagliato allora e sbagliamo ancora di più ora se ci sentiamo rappresentate da un ministro perché donna, quando si altera per una gonna scosciata ma altera i già perigliosi equilibri dello stato sociale, delle relazioni industriali, facendo rovinosamente crollare l’edificio di conquiste e garanzie, già manomesso.
Abbiamo sbagliato se ci siamo offese per l’oltraggio al corpo più che al cervello delle donne, per l’offesa simbolica alla dignità mentre i diritti che la devono sostenere venivano e vengono devastati da una macchina bellica che lavora per l’accumulazione, il profitto, la ricchezza inattaccabile di pochi alimentata dal lavoro e dalle privazioni di molti. L’offesa reale è alla caduta dei valori del lavoro, l’affronto è quello recato alla bellezza e alla cultura, la ferita è quella inferta ai principi della solidarietà e della coesione sociale, lo sfregio sta nello svuotamento dell’intero sistema dell’istruzione e della formazione che condanna sempre di più, anche oggi, il nostro paese all’esclusione della modernità, alla perdita di senso del futuro prodotta anche dal progressivo impoverimento dei modi del dialogo, del senso dello Stato, della credibilità e dell’autorevolezza delle istituzioni, dell’appartenenza a una collettività, del rifiuto morale dell’illegalità.
Ieri e oggi siamo vittime di una violenza, quella che ammazza, quella che offende esplicitamente favorite dall’espropriazione del potere femminile di autodeterminarsi, e quella più sottile, subdola, sobria che intride e avvelena tutto, indotta dalla considerazione rinnovata a proterva del corpo non solo delle donne, ma di tutte le persone, come “luogo pubblico” invaso dal legislatore che interviene con diritto di vita e di morte, dal padrone che come un “caporale” prende o manda via secondo i suoi bisogni,da uno stato sempre meno sovrano e sempre meno servitore del popolo che usa le donne come forza lavoro vicaria al posto dei servizi, dell’assistenza, della cura, temi espulsi dall’agenda politica di un ceto politico che ha scelto di sacrificare la realtà al realismo.
Oggi più che mai, fatti salvi comportamenti individuali e storie rappresentative di segmenti di privilegio e sopraffazione “intersessuale”, tra i sommersi e gli irregolari le donne sono sommerse due volte, tra i vulnerati le donne lo sono doppiamente, tra gli esclusi le donne lo sono talmente da essere recluse nell’isolamento e l’emarginazione, così nelle professioni, nel lavoro, come nell’accesso all’istruzione, nelle politiche salariali, nelle carriere. Perché nell’essere donne si esalta il paradosso di un sistema politico in cui tutti svengono dichiarati all’apparenza liberi e eguali politicamente, ma nel quale restano profondamente divisi da ineguaglianze di reddito e di opportunità di accesso al potere. La democrazia non è solo un processo politico, è un sistema pedagogico che dovrebbe educarci e educarsi a perseguire il bene comune e a vivere insieme, donne, uomini, persone. La democrazia ha bisogno di noi per compiersi e noi abbiamo bisogno di democrazia.