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Minoranze: “lo sai che ci sono i coreani in Uzbekistan?”

Creato il 01 febbraio 2012 da Eastjournal @EaSTJournal

di Matteo Zola

MINORANZE: “Lo sai che ci sono i coreani in Uzbekistan?”La mia ragazza torna a casa e mi dice: “Lo sai che ci sono i coreani in Uzbekistan?“. La guardo e penso che abbia bevuto, generalmente confonde la Slovacchia e la Slovenia, Samarcanda con Trebisonda, e i paesi in -stan sono per lei tutti uguali. Quindi “i coreani in Uzbekistan” mi lasciano sconcertato. “Eh?” le faccio. “Sì li hanno mandati i russi, quando c’era Stalin in Corea del Nord”. Tiro un sospiro di sollievo: “Stalin in Corea del Nord” mi tranquillizza visto che la nascita della Corea del Nord è stata ratificata nel 1948. Così faccio qualche ricerca che qui condivido con voi.

Il Novecento, che tanti grami appellativi ha meritato, è stato anche il secolo delle deportazioni e la Russia sovietica è stata maestra in materia. La storia dei coreani in Uzbekistan è già tutta qui ma credo meriti d’esser raccontata – per quel poco che ne apprendo ora – per quel valore che la cultura europea dà alla memoria. Avere una memoria è avere la necessità di un futuro, un futuro da riscattare. Quindi vengo al dunque.

Negli anni sessanta e settanta dell’Ottocento delle gravi carestie colpirono la Corea, all’epoca guidata dalla dinastia locale dei Joseon che guidavano il Paese da sei secoli destreggiandosi dalle influenze dei potenti vicini, di volta in volta manciù, cinesi, giapponesi, russi. Una sempre più vasta migrazione di coreani investì le province marittime dell’estremo oriente russo le cui fila s’ingrossarono con l’annessione della Corea da parte del Giappone nel 1910. La dominazione nipponica fu molto dura e lo sfruttamento massiccio dell’economia locale impoverì la popolazione che nuovamente emigrò verso la Russia. Quando poi nel 1919 la rivolta anti-giapponese fallì, e i dominatori si fecero ancora più feroci, in molti fuggirono verso la Russia, nel frattempo sovietica.

Fino agli anni Trenta i coreani beneficiarono di una politica di relativa libertà culturale promossa dal regime sovietico: nell’estremo oriente russo i coreani potevano studiare in scuole in cui si parlava coreano e nei distretti abitati da popolazione coreana erano stampati giornali e riviste in coreano. Lo stalinismo mostrò il suo volto più duro con l’inasprirsi della guerra: nel 1937 il Giappone invase la Manciuria minacciando i confini sovietici, intanto la Pravda prese ad accusare i coreani presenti sul territorio sovietico di essere spie nipponiche.

Il 21 agosto del 1937 Stalin e Molotov firmarono una risoluzione che ordinava che tutti coreani che vivevano nelle aree di confine con la Corea e la Manciuria fossero deportati in Kazakhstan e in Uzbekistan entro la fine dell’anno. L’Nkvd, la polizia segreta sovietica (attiva fino al 1946) organizzò la deportazione: i coreani di Russia furono caricati su lunghi treni diretti verso l’Asia centrale. Ci vollero 124 convogli per deportare 172mila persone stipate in vagoni senza acqua diretti verso una destinazione a loro ignota.

Sir Fitzroy MacLean, diplomatico britannico di stanza a Mosca (considerato uno degli uomini da cui  fu presa ispirazione per la creazione del personaggio di James Bond) fu testimone delle purghe staliniane e, tra le altre, della deportazione dei coreani. Nel suo libro Eastern Approaches, a pagina 54, scrisse come, nel settembre 1937, mentre stava tentando di raggiungere in treno l’Asia Centrale, si imbatté casualmente nella deportazione dei coreani: “Ad Altajsk [...] ci fermammo per varie ore, mentre un certo numero di vagoni bestiame veniva agganciato al nostro treno. Questi vagoni erano pieni di gente che, a un primo sguardo, sembravano cinesi. Si rivelarono essere coreani, che con famiglia e beni erano in viaggio dall’estremo oriente all’Asia Centrale, dove erano mandati a lavorare nelle piantagioni di cotone. Non avevano idea del perché venissero deportati.

Una volta in Asia centrale vennero distribuiti tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, i primi anni d’esilio furono terribili. In molti morirono privi di qualsiasi assistenza sanitaria, isolati in comunità non pronte ad accoglierli, malnutriti. Il primo anno -secondo i dati ufficiali – ne morì il 22% circa, soprattutto bambini. I loro villaggi erano sorvegliati dal Nkvd ed erano trattati alla stregua di prigionieri di guerra. La loro pena, per non si sa quale colpa, era quella di scontare cinque anni in quelle terre lavorando alla costruzione di infrastrutture. Era tuttavia fatto loro divieto risiedere nei distretti di confine dei loro nuovi Stati-prigione. La condanna all’esilio fu prorogata più volte e terminò solo nel 1954, un anno dopo la morte di Stalin. In quel periodo fu loro proibito l’uso della lingua coreana, furono proibite scuole in lingua coreana (come invece prima della deportazione) e furono esentati dall’obbligo di leva militare. Infine fu loro fatto divieto lo studio di materie scientifiche e tecniche oltre che l’accesso a scuole d’insegnamento superiore.

Dopo il 1954 la segregazione dei coreani finì, ma quasi nessuno se ne andò. Vennero impiegati nelle risaie, coltura tradizionale coreana, e la loro condizione progressivamente migliorò andando di pari passo con la russificazione. Nel 1991, alla caduta dell’impero sovietico, non si creò nessun movimento di rientro nella Corea del Sud. Per i coreani dell’Asia centrale ormai la Corea era un posto che non li riguardava più, il coreano stesso era una lingua dimenticata e parlata da pochi anziani. 

Quello dei coreani fu uno dei tanti spostamenti di popolazione coatti che caratterizzarono il secolo scorso: la paranoia di un regime brutale, l’intolleranza verso le minoranze, la guerra in corso, contribuirono alla deportazione coreana in Asia centrale. Il popolo coreano subì una ben più massiccia deportazione da parte dei giapponesi che, come si è detto, controllavano il territorio coreano:  durante la guerra circa 2 milioni di coreani furono trasferiti forzatamente sul suolo giapponese per sostituire gli operai e i contadini al fronte. Alla fine delle ostilità poterono tornare in Corea in base a un programma di rimpatrio, di cui usufruirono, entro il marzo 1946, 1,3 milioni di coreani. I 700.000 coreani rimasti in Giappone di lì a poco furono trasformati in cittadini di seconda categoria, quando nel 1952 furono privati della cittadinanza giapponese (“denazionalizzazione”). Ad oggi la situazione non è diversa, vengono chiamati burakumin (lett. “pieno di sporcizia” o “non umano”) e sono la principale fonte di manovalanza per le yakuza nipponiche.


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