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Esiste un occidente senza cellulari, assilli tecnologici e "lento"? Kaurismaki ce lo mostra in una cornice sublime nel suo ultimo film "Miracolo a Le Havre". Il regista finlandese sceglie di raccontare una dolcissima storia di solidarietà e amicizia tra un lustrascarpe bohémien e un giovanissimo "emigrato clandestino" ambientandola nel nord della Francia, in una cittadina portuale di cui non indovineresti l'epoca. E' il dramma degli emigranti che viaggiano nei container, ammassati come sardine in una scatoletta, a ricordare che gli anni inquadrati sono i nostri, altrimenti sembrerebbe essere proiettati in una dimensione "altra", a-temporale e a-spaziale. La cruda realtà di chi vive ai margini della nostra società, del nostro occidente, è infatti raccontata con un tocco di elegante e poetica semplicità, che rende tutto, dalla storia alle atmosfere, dai personaggi alle ambientazioni, irreali. In questa favolistica commistione tra realtà e irrealtà si ritrova il genio e la felice intuizione narrativa del regista che spoglia il nostro mondo iper nutrito, schiavo di supermercati e mezzi di comunicazione, per concentrarsi il più possibile sulla sola umanità, vero e unico patrimonio prezioso che ci rimane. In questo andare verso l'essenziale, tutto appare più chiaro: le infinite discussioni sul tema dell'immigrazione e le molteplici teorie a riguardo si annullano per fare spazio alla storia che uomini e donne stanno scrivendo, giorno dopo giorno, in realtà piccole, marginali, squallide.
Ma grazie alla visione di Kaurismaki lo squallore scompare. Lo spettatore potrebbe desiderare addirittura di andare in quelle bettole frequentate da ambigui personaggi dove il protagonista, André Wilms, è solito bere un bicchiere di vino dopo una giornata di lavoro passata a pulire le scarpe altrui: il marciapiede come ufficio e come collega un coreano costretto a esibire un vero (per il governo), ma falso (per l'identità) passaporto cinese per poter essere considerato "esistente".
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