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MIRACOLO A LE HAVRE (2011)
Regista: Aki Kaurismäki
Attori: André Wilms, Blondin Miguel, Jean-Pierre Darroussin
Paese: Finlandia, Francia, Germania
Marcel Marx, un uomo che ha da tempo abbandonato la vita da bohemien e che ora si guadagna da vivere facendo il lustrascarpe a Le Havre. È sposato con Arletty, per lui punto di riferimento irrinunciabile. Durante una delle sue solite pause pranzo si imbatte in Idrissa, un giovane immigrato che si ritrova per sbaglio a Le Havre dopo aver viaggiato in un container, e decide di aiutarlo affinché raggiunga sua madre a Londra.
“Decide di aiutarlo” è in realtà già un'espressione forzata se si vuol descrivere più o meno fedelmente quanto accade. Le azioni di Marcel, infatti, sembrano dettate più da una prassi comportamentale che da una decisione eccezionale. Chi non ha mai visto nulla di Kaurismäki si ritrova quindi fin da subito alle prese con una qualche disorientante stortura narrativa; chi al contrario del regista finlandese qualcosa l'ha già vista, riconosce dopo appena qualche scambio una dimensione assai familiare. È quella apparentemente posticcia e grossolana nella quale Kaurismäki fa muovere i suoi personaggi, nella quale immerge le storie che racconta. Sembrano ad un primo sguardo, le sue, pellicole semplicemente fatte male, tanto che si rischia più volte durante la visione di etichettarle sbrigativamente come prodotti di serie B poco riusciti. In realtà, ad uno sguardo più attento, oltreché ad un cuore più aperto, si schiudono in un fascino tutto particolare, dettato da scelte ben precise.
La regia è misurata e statica, priva di particolari virtuosismi. Ciononostante, e anzi proprio per questo, contribuisce enormemente alla messa in scena della dimensione di cui si scrive. Anch'essa appare a volte abbozzata e superficiale – si veda la sequenza in cui Idrissa viene bloccato dal l'unico uomo all'interno della pellicola davvero intenzionato a consegnarlo alla polizia. Viene salvato da un terzo uomo. L'inquadratura è tutta per le mani: alle prime due, quelle di Idrissa e dell'uomo, se ne aggiunge una terza, quella che poi permetterà ad Idrissa di scappare – ma è in realtà lucida e calibrata nella scelta di proporre inquadrature quanto meno stranianti. È ciò che del resto fa Kaurismäki, ossia dirigere pellicole capaci prima di spiazzare e poi di avvolgere in un'atmosfera calda e riconoscibile.
Pur ricoprendo, la regia, un ruolo primario nella messa in scena, ad essere fondamentale per la stessa è il connubio diegesi-sceneggiatura. “Miracolo a Le Havre”, infatti, non ha alcun cambio di ritmo, sembra in realtà quasi non avere ritmo alcuno. La narrazione non sfrutta tempi lenti, ma addirittura rifiuta i tempi classici del racconto filmico, limitandosi a posizionare in ordine cronologico le sequenze sullo schermo. Normalmente ad una struttura simile sarebbe quasi preferibile la semplice lettura della sceneggiatura, essendo sulla carta l'anti-cinema per eccellenza, invece Kaurismäki riesce a creare un insieme tale da pulsare di vita propria.
Le interpretazioni, allo stesso modo, si allontanano del tutto dai canoni recitativi e si spogliano di qualsivoglia ricercatezza espressiva, fino a risultare elementari, scarse si potrebbe dire. Ma ad allontanarsi da ciò che si è abituati ad osservare insieme alle interpretazioni sono anche i personaggi dalle stesse restituite. Delineano caratteri fuori dal mondo, stranianti (ci si ritrova ad usare questo termine, perché è in realtà forse quello più vicino al cinema del regista finlandese) che si adattano perfettamente al resto. In particolare all'intreccio. Quest'ultimo a sua volta, insieme ai dialoghi, è, sempre solo in apparenza, poco credibile: Idrissa sfugge ai militari con una facilità improponibile; Marcel entra nel centro che accoglie i clandestini con giustificazioni assolutamente deboli. Fanno parte anch'essi di quel posticcio curato nei minimi dettagli, che permette a Kaurismäki di raccontare una favola in piena regola, popolata di personaggi al limite del grottesco e intrisa di una positività ingenua e fanciullesca come il suo protagonista. Una favola così ben raccontata da rendere al termine atipica la realtà e non la storia narrata.
Quando tutti ormai raccontano la realtà in maniera viscerale, con tutte le sue brutture e le sue difficoltà, “Miracolo a le Havre” si isola del tutto e propone una storia semplicissima, in cui nulla va per il verso sbagliato. Tutti sono dalla parte del piccolo Idrissa e di Marcel, anche il commissario Monet, protagonista insieme all'irresistibile Little Bob delle pochissime scene in cui si distingue una seppur lieve ricercatezza tecnica. Altruismo e sentimento si fanno prassi e sostengono una realtà ideale, ma che ideale non dovrebbe essere. Non a caso ci si adatta con facilità estrema alla narrazione, non si fa fatica alcuna ad accettare ed assorbire una simile visione del mondo, fino a giungere al punto in cui, come si accennava qualche riga più sopra, si percepisce come storta la realtà vissuta e non quella osservata per quei 90 minuti scarsi sullo schermo.
È forse questo il principale motivo per cui l'ultimo lavoro di Kaurismäki è stato accolto come un piccolo miracolo dalla critica. È parere di scrive, tuttavia, che sia ben lontano dall'essere un capolavoro, pur essendo una pellicola assai piacevole e senza dubbio riuscita. È anche vero, però, che “piacevole” nel caso di Kaurismäki assume comunque una valenza diversa. Maggiore.