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Miracolo a Le Havre – il realismo magico di Kaurismäki

Creato il 02 dicembre 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Dopo aver rivisto Miracolo a Le Havre di Kaurismäki. Quando è uscito nelle sale italiane due anni fa, è stato, a pochi giorni di distanza da Le nevi del Kilimangiaro di Guédiguian, davvero una boccata d’ossigeno. Condividono i due film la stessa delicatezza di fondo, lo stesso attore (Jean-Pierre Darroussin), ma soprattutto quel realismo magico che non trascura niente della realtà, anzi sembra volerla rallentare proprio per darci il tempo di coglierne ogni sfumatura, e nello stesso tempo la ingentilisce.

Diceva Proust che “l’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi”, e se il cinema può essere metafora del viaggio interiore, per un film far vedere le cose con sguardi rinnovati è decisamente un grande merito.

Miracolo a Le Havre è stato definito da tutti una favola moderna, una favola sociale, ma Kaurismäki dice che è qualcosa di più, che vuole rappresentare la banalità del bene perché il bene genera bene, e la funzione del cinema è quella di coinvolgere lo spettatore al punto che esca dalla sala più felice di come è entrato. I suoi personaggi sono “gente all’antica in un mondo moderno”, le storie sospese nel tempo. C’è chi ha paragonato il miracolo a Le Havre a quello milanese di De Sica, a quel mondo dove “Buongiorno vuol dire davvero buongiorno” per uomini e donne sempre ai margini, ma ancora capaci di ritrovare il contatto con gli altri e con loro stessi.

Miracolo a Le Havre – il realismo magico di Kaurismäki

Qui il protagonista si chiama Marcel Marx. Pare che il nome sia un omaggio a Marcel Carnè de Il porto delle nebbie, ambientato nel 1938 a Le Havre. Ma nel film di Kaurismäki tutto è limpido: gli esterni e gli interni, le pareti di casa azzurre come il cielo (sono azzurri anche gli sfondi di Nuvole in viaggio), a rappresentare un lindore psicologico di chi, senza chiedersi né come né perché, con naturalezza si dedica all’aiuto dell’altro. L’anziano lustrascarpe Marcel ci viene presentato fin dall’inizio nella semplicità della sua vita. Con poche, pochissime parole, sembra accontentarsi delle sue giornate spoglie: consegnare i soldi alla moglie Arletty a fine giornata, bere un bicchiere al bar, portar fuori il cane. Eppure, è stato uno scrittore; potrebbe vivere di rimpianti, rimuginare sul successo mancato, su una vita sognata sotto i riflettori. Marcel Marx sembra sereno come il piccolo mondo che gli sta intorno: la barista, il fruttivendolo, la panettiera. Piantato con i piedi per terra e i piedi, le scarpe, sono inquadrati spesso durante la narrazione. Emmauel Carrère, in Vite che non sono la mia, di lui direbbe “sa dove si trova”, come delle persone che sono più avanti sulla via della consapevolezza.

Marcel non è un personaggio dinamico, ma neppure statico, perché l’ovvietà del suo dedicarsi al ragazzo ricercato dalla polizia, fino ad ospitarlo in casa e farlo fuggire clandestinamente in Inghilterra, così come il vivere a proprio agio solo dell’essenziale, sembrano cambiamenti avvenuti nella sua vita precedente, quella che non ci viene raccontata, ma facilmente suggerita. Non è un Uomo senza passato (come il protagonista del film di dieci anni fa). Anche lui, nonostante il vuoto della memoria, capace di ricostruirsi una vita affettiva, di ritrovarsi, piantando le patate come in un esercizio zen davanti alla sua baracca vista mare.

A Le Havre, un setting diverso da quello finlandese, così caro al regista, anche il recitare è meno gelido, meno stereotipato. Le inquadrature meno fisse e posate sul calore della quotidianità. Il cinema di sottrazione a cui ci ha abituati sembra finalmente concedere, questa volta, qualcosa in più, dimenticando ogni tanto l’effetto straniante (forse perché Kaurismäki sta per compiere i suoi cinquantasei anni?). Non sarà un caso che questo film compare a distanza di cinque anni da quello precedente, che il regista ha ampliato i tempi tra un’opera e l’altra. Ne valeva la pena, perché ha evitato il rischio di irrigidirsi in uno stile che forse lo avrebbe bloccato insieme ai suoi personaggi.

Il porto delle nebbie

Il ruolo della musica è sempre fondamentale, a sottolineare, con un volume piuttosto alto, i momenti di passaggio psicologico dei personaggi, la comunicazione tra loro o all’interno di sé. L’uomo senza passato trova un jukebox in discarica, lo aggiusta, lo inserisce nel suo capanno e lo fa suonare durante la prima cena a due con la sua nuova fidanzata. Iris (La fiammiferaia -1990), cacciata di casa dai genitori, viene ripresa mentre fuma, seduta in fondo ad una stanza con il jukebox alla sua sinistra, dal quale un bel ritmo accompagna la sigaretta (una scena fissa e molto lunga in cui il tempo della storia e il tempo della narrazione quasi coincidono, il solito rallentamento alla Kaurismäki, non proprio leggero, questa volta, a precedere la determinazione di Iris  nel vendicarsi dell’amante e della famiglia, avvelenandoli!). In Miracolo a Le Havre, oltre alla solita bella musica, c’è la digressione del concertino di Little Boy, personaggio bizzarro, più che mai fuori dal tempo.

In tutti i film di Kaurismäki musica classica, tango finlandese e ultima, ma non ultima, la musica popolare, collante del suo popolo di emarginati. Anche se ora il ciclo dei perdenti di venticinque anni ha lasciato il posto al miracolo, che non viene dichiarato nel titolo originale (Le Havre), ma solo nella versione italiana, perché noi dobbiamo sempre tutto spiegare, tutto dichiarare.

Il miracolo farebbe pensare ad un ottimismo dell’autore; in realtà lui dichiara che “quando non ci sono speranze, non c’è nessun motivo di essere pessimisti” e se lo guardiamo nelle videointerviste non è che sia proprio sempre sorridente. Guarda in macchina un po’ torvo, serio, l’immancabile bicchiere in mano, una sigaretta dopo l’altra, così come nei suoi film, dove si beve e si fuma senza risparmiarsi. Però, a Marcel ha dato il cognome Marx, e non può essere casuale. Sarà questo miracolo a Le Havre la sua personale, personalissima rivoluzione? Un ribelle, Aki Kaurismäki, che non alza mai la voce, non esibisce bandiere, ma sa da che parte stare e che ha deciso, questa volta, di coinvolgere emotivamente anche lo spettatore.

Margherita Fratantonio


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