Miranda July, nativa del Vermont, classe ’74, è quella che si suole definire un artista a tutto tondo: scrittrice, musicista, artista multimediale, attrice e regista. Figlia di una coppia di editori e scrittori, da ragazza è spinta ad approcciare professionalmente la scrittura – diversi i libri pubblicati con gli anni – grazie agli incoraggiamenti di un amico dei genitori, lo scrittore Rick Moody. Cresciuta a Berkeley, dopo il college decide di spostarsi a Portland, dove entra in contatto con la scena artistica locale e collabora con alcune band musicali di Olympia, come The Need con cui incide un album per l’etichetta Kill Rock Stars. Tra la metà degli anni ’90 e il 2002 lavora su diversi progetti d’arte visuale, tra cui The Swan Tool, che vengono proiettati al MOMA e al Guggenheim Museum. A quel punto, dopo aver partecipato a un workshop di scrittura del Sundance Film Festival, decide d’avvicinarsi al cinema e così nel 2005 approda nelle sale il suo film di debutto: Me and You and Everyone We Know. Vincitrice della Caméra d’Or al Festival di Cannes, la pellicola diventa immediatamente un caso, attirando l’attenzione del pubblico e delle riviste specializzate; la storia di queste solitudini in cerca di conforto, raccontate in toni pastello con improvvisi schizzi di colori forti, sembra riassumere i vizi e le virtù di quel cinema indie USA che da tendenza cinematografica inizia ad assumere i tratti di moda estetica. Proprio per questa ragione, oggi, agli occhi di molti, il nome di Miranda July ha l’effetto di un’evocazione satanica.
Con il suo esordio, nel giro di un solo film, la regista difatti è riuscita a ottenere un’aura da cineasta di culto e rappresentante del cinema indipendente che l’ha resa invisa a molti. Ma quella di Me and You and Everyone We Know è una storia semplice, che parte dal tema ricorrente di tutti i lavori artistici della July: l’impellente necessità d’entrare in relazione con qualcuno che caratterizza noi tutti. Si tratta di una vicenda corale, in cui è l’effimero a far da padrone, dove tutto sembra andare per il peggio finché non appare, inaspettato, un processo catartico che sembra modificare le vicende di questi personaggi, soli come se fossero gli ultimi abitanti della terra. Così, in una cittadina senza nome degli Stati Uniti, seguiamo le vite di alcune persone comuni che s’intersecano, dando origine a una serie di situazioni che sfociano sempre in epiloghi nutriti da un barlume di speranza. Una struttura narrativa classica per il cinema americano, memore dei capolavori di Altman come dei lavori della coppia Iñárritu-Arriaga, che la regista utilizza sapientemente per livellare le vite dei personaggi con quelle degli spettatori. Non c’è un giudizio dall’alto, tutte le storie, sia riguardino adulti sia parlino di bambini, sono tremendamente oneste, tanto da mettere in imbarazzo chi osserva, costretto a scoprire impulsi che solitamente fa più comodo tenere nascosti. La cineasta ci sbatte in faccia tutte quelle cose che non capiamo, oppure ci piace credere di non capire, ma di cui siamo certi di non voler parlare; come gli istinti sessuali di un preadolescente, la pulsione di morte di un anziano, il desiderio di accettare qualsiasi situazione pur di essere guardati negli occhi e riconosciuti come esseri umani, degni di un briciolo d’attenzione e conforto. L’irriverenza è quella del cinema di Todd Solondz, come lo sguardo verso l’umanità suburbana, con l’assenza d’inibizione che caratterizza i suoi personaggi, ma è profondamente diverso lo sguardo garbato, affettuoso, solare che la regista regala alla storia. Questo racconto di personaggi apparentemente strambi a qualcuno potrà sembrare assurdo o forzato, invece è tremendamente reale, non ci sono buoni o cattivi, i personaggi semplicemente vivono come me e te e tutti coloro che conosciamo. Al centro della vicenda poi sono presenti anche la figura della stessa July, che interpreta l’autoironico personaggio di un’aspirante artista, e i suoi lavori video, che costituiscono un secondo livello del film. Un’operazione che è ancor più presente nel suo film successivo, dove i meccanismi della video arte, non più solo elemento tematico, diventano anche strumenti della messa in scena e correlativo oggettivo dei pensieri dei personaggi.
Dopo un lungo silenzio cinematografico, nel 2011 presenta al Sundance Festival il suo secondo lungometraggio, The Future, che è ancora inedito nelle nostre sale. Si restringe il campo dei personaggi, che diventa un campo a due, il tono minimale si contamina col fantastico, però il terreno d’azione rimane identico. Stavolta July si concentra sul rapporto di coppia, mettendo in scena le insoddisfazioni di due artistoidi, ironicamente descritti secondo i peggiori cliché hipster, che non riescono ad assumersi le proprie responsabilità. Il gioco della narrazione qui è tutto concentrato sulla dilatazione temporale, ci troviamo, infatti, nell’attimo “prima della caduta” del loro rapporto, come ci dice la stessa protagonista, e questo momento viene gonfiato in maniera tale da rendere giganteschi i dettagli della vita dei personaggi, oppure viene bloccato, seguendo un gioco surreale legato ai “poteri magici” della protagonista. L’ansia del futuro, l’incapacità di gestire il presente e la scarsa voglia di guardare al passato, sono gli ingredienti che compongono l’immobilismo letale di questa coppia, che, posta di fronte ai limiti legati all’adozione di un gatto, decide improvvisamente di mettersi in gioco per non morire. Scene di un non matrimonio in bilico, che cerca la salvezza seguendo le vie più improbabili.
D’altronde di fronte a questa crisi di coppia, che ancor prima è una crisi esistenziale individuale, non si può che rimanere colpiti, perché sotto la patina sghemba del registro utilizzato, ancora una volta parla di noi tutti, delle eterne difficoltà che nascono nel conciliare il sentimento al tempo che passa, le aspirazioni personali allo spirito altruista di cui ha bisogno una relazione. E se, nell’esordio della regista, i personaggi si rincorrevano alla ricerca di un contatto, stavolta scelgono la fuga solitaria così da slegarsi da ogni rapporto e legame. I colori pastello, le musiche malinconiche, sembrano addolcire l’atmosfera, ma è chiaro come sotto ciò si celi un vero e proprio urlo di dolore, una richiesta d’aiuto che rimane nel vuoto, come testimonia il sardonico finale, dato che la medicina per questo male è ancora da trovare. L’ansia della vita ci rende immobili, tutto dipende da noi ed è proprio questa possibilità, se ci soffermiamo a pensarci, che può bloccarci per sempre o regalarci la possibilità del movimento. Come una moderna Mary Poppins, Miranda July, vuole ricordarci soltanto che per mandar giù la pillola serve un po’ di zucchero. E allora, dato che chiunque di noi ha bisogno di essere amato, cari detrattori, perché non regalare un po’ d’amore anche a Miranda July?
Rosario Sparti
Scritto da Redazione il ott 13 2014. Registrato sotto RUBRICHE, TAXI DRIVERS CONSIGLIA, YANKEE HOTEL. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione ’