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Miroslav Krleža, la rivolta alla barbarie di un poeta jugoslavo

Creato il 12 novembre 2013 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 12 novembre 2013 in Balcani Occidentali, Critica letteraria, Slider with 0 Comments
di Matteo Zola

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Dietro a queste prediche umanistiche non sentirete altro che l’affilatura dei coltelli. I signori si stanno preparando all’assassinio per rapina, e prima di scannare la povera gente balcanica vogliono diffamarla davanti all’Europa, come se loro fossero gli unici garanti della civiltà europea”

Con queste parole Miroslav Krleža scriveva nel 1967 un visionario epitaffio sul secolo che lui, ancora, doveva veder finire. Un secolo che, nei Balcani, si è concluso con la guerra e la disgregazione non già di uno stato – la Jugoslavia – ma di una comunità che ha innalzato a differenze insormontabili dettagli che mai, prima di allora, ne avevano minato la convivenza.

“Serbi e croati sono la stessa merda di vacca spaccata in due dal carro della storia”, scrisse ancora Krleža in un’opera di assoluta bellezza, quelle Ballate di Petrica Kerempuh, che rappresentano un capolavoro della letteratura balcanico-jugoslava del secolo scorso

Già, perché queste Ballate, scritte tra il 1935 e il 1936, hanno come modello una “cultura bassa“, popolare, che si esprime nel dialetto kajkavo e descrive la società croata del XVI secolo, quella delle rivolte contadine, ma anche l’epoca del romanticismo e le tensioni del primo Novecento. Ogni capitolo – e sono trentaquattro – si riferisce a un anno particolare nel corso di quattro secoli di storia. Un viaggio nel tempo che ruota intorno alla figura di Petrica Kerempuh, alter-ego del poeta, trovatore sfaccendato, lirico contadino, letterato perdigiorno, chierico vagante, musicista e bandito, ai margini della società ma al centro della storia. Petrica, con la sua mandola, attraversa le epoche (e le pagine) con il suo canto di dolore e irrisione. Il dolore per le vicende popolari (trattate senza ombra di populismo) e la derisione per il potere. 

Quello che ci racconta Petrica è un inferno sulla terra dal quale si esce, però, non già per via mistica (come nel caso dantesco che qui echeggia) ma per moto di derisione della realtà e delle sue regole. C’è, in queste liriche, un tono estatico ed insieme grottesco, espressivo, tellurico, ritmico, che fa di questi testi delle vere e proprie ballate. Non manca però, nell’approccio al dramma delle vite oppresse, un surrealismo lirico che le solleva ed amplifica rendendo astoriche le vicende umane descritte.

Per esprimere tutto questo Krleža usa una lingua che, fondandosi sul dialetto kajkavo, utilizza prestiti dal latino, dal magiaro, dall’italiano e dal francese. Una lingua poetica dotta, quindi, falsamente popolare. Una lingua “reinventata” che si maschera dietro al realismo. Quando Krleža compone queste liriche, tra il 1935 e il 1936, ha già maturato il suo allontanamento dal socialismo ufficiale. La poesia di Krleža non è al servizio dell’ideologia ma chiave per interpretare i nessi tra “spicciola realtà sociale, i processi storici e le leggi della natura”, come scrisse Claudio Magris in Danubio.

Krleza, nato nel 1893 a Zagabria, fu anzitutto poeta dell’avanguardia e del futurismo. La composizione delle Ballate tradisce invece un’adesione a un espressionismo poco affine alla propaganda socialista dell’epoca. Comunista eterodosso, antimilitarista convinto, sostenitore dell’idea jugoslava, Krleza si oppose sempre alle ingerenze politico-ideologiche, soprattutto di matrice sovietica, in ambito artistico e letterario, cosa che gli provocò isolamenti e censure, e infine l’espulsione, nel 1937, dal Partito comunista jugoslavo decretata dallo stesso Tito. Proprio Tito però lo innalzerà a personaggio pubblico e poeta “jugoslavo” dopo la Seconda guerra mondiale affidandogli un decisivo ruolo pubblico nella costruzione dell’identità culturale della Repubblica federale.

In quegli anni Krleža fondò infatti a Zagabria, la sua città natale, l’Istituto lessicografico jugoslavo. I rapporti fra Krleža e la Lega dei Comunisti rimasero però sempre conflittuali, fino all’adesione, nel 1967, alla “Dichiarazione sulla denominazione della lingua croata”, nella quale si contestava l’idea che il croato fosse una lingua regionale, meno nobile del serbo. Il termine “serbocroato” era infatti visto negativamente negli ambienti culturali croati perché si riteneva affermasse una “sottomissione” del croato al serbo. La scelta “localista” di Krleža sancì la sua progressiva emarginazione dalla cultura ufficiale. Morto nel 1981, ha lasciato alla Jugoslavia in declino un patrimonio culturale difficile da maneggiare.

Dopo la caduta della Jugoslavia la fortuna di Krleža ha avuto sorti alterne. Il suo jugoslavismo ne ha sancito una “damnatio memorie” in patria malgrado le Ballate siano un capolavoro scritto in un dialetto croato. Non solo: le Ballate di Petrica Kerempuh sono una denuncia della guerra e della tirannia del potere e – se il poeta aveva negli occhi il macello della Prima guerra mondiale – il mondo macellato è lo stesso delle guerre degli anni Novanta, come pure è lo stesso lo strazio della gente. Nelle Ballate si può dunque leggere un affresco delle recenti guerre jugoslave, della loro insensatezza e barbarie. E la rivolta alla barbarie è la cifra dominante dell’opera: “una rivolta plebea pronunciata in una lingua barocca”.

Grazie alla traduzione di Einaudi del 2007 l’opera è oggi disponibile al pubblico italiano, in attesa che anche in patria si ricordino di lui. Già, ma qual è la sua patria?

Tags: ballate di Petrica Kerempuh, Croazia, einaudi, Jugoslavia, kajkavo, letteratura, matteo zola, Miroslav Krleza, Petrica Kerempuh, serbocroato, Tito Categories: Balcani Occidentali, Critica letteraria, Slider


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