Eppure lo so che devo stare ben lontana dai libri con i faccioni in copertina. Dai libri con titoli che non c'entrano assolutamente nulla con l'originale e che hanno qualche cibo al loro interno. Dai libri che ultimamente la Garzanti sforna alla media di uno a settimana, con una bella fascetta che li dichiara "casi editoriali" o "libri dell'anno". Lo so, ma ci sono cascata ugualmente. Vuoi per curiosità, perché comunque la trama di questo mi ispirava parecchio, vuoi per vedere se magari i miei sono solo pregiudizi.
Pregiudizi che però non sarà questo libro a farmi passare. Anzi. E' riuscito a farmi crescere ancora di più l'irritazione, verso le copertine, verso i titoli e verso la casa editrice che li pubblica. E quindi questa recensione non sarà per niente ragionata. Non cercherò scusanti né giustificazioni. Perché non ce ne sono.
E' un libro insulso. Insulsi sono i protagonisti. Insulsa è la classica famiglia americana stereotipata che viene descritta e altrettanto insulse sono le vicende che a tutti i personaggi capitano. Una serie di luoghi comuni, di banalità, messi tutti insieme sotto lo stesso tetto, quello dei perfettissimi William e Ginny, che di colpo si ritrovano in casa tutti e tre i figli ormai adulti: c'è chi è in fuga da una vita deludente o da un marito fedifrago, e chi era semplicemente in visita ma poi costretto a restare. Un'analisi dei legami tra i vari famigliari non viene mai fatta. Sono tutti semplicemente antipatici, non solo al lettore ma anche tra di loro, e tutti troppo presi dai loro problemi e dal "andiamo da mamma e papà che ci pensano loro". Certo, come no. (Anche perché, pure 'sti genitori, non è che siano così contenti di vedere i figli eh...).
Il problema principale di questo libro è che mette troppa carne al fuoco, lanciandola sulla griglia quasi a caso, mischiando tanti elementi (il tradimento, le difficoltà delle neomamme, le mogli che guadagnano più dei mariti, il senso di smarrimento che si prova quando la vita non sta andando dove vogliamo, la religione, le gravidanze difficili), senza poi essere però in grado di seguirli. Risultato: una storia con tanto potenziale andata in fumo, che più che di mirtillo (che, per la cronaca, l'unico modo in cui compare nel libro è sotto forma di Blackberry, inteso come cellulare) sa di bruciato.
Insomma, uno di quei libri che non appena lo chiudi (per fortuna scorre abbastanza in fretta, questo bisogna ammetterlo) non puoi fare a meno di domandarti: perché? Perché è stato scritto, perché è stato pubblicato, perché è stato tradotto e, soprattutto, perché diavolo l'ho letto.
Nota alla traduzione: c'è una nota per spiegare che il "blackberry", inteso come il cellulare tuttofare, vuol dire anche "mirtillo". E mi viene il sospetto che sia stata aggiunta dopo la scelta del titolo italiano (quello originale è "The arrivals")
Titolo: Mirtilli a colazione
Autore: Meg Mitchell Moore
Traduttore: Enrica Budetta
Pagine: 312
Anno di pubblicazione: 2012
Editore: Garzanti
ISBN: 978-8811681779
Prezzo di copertina: 16,40 €
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