Non avevo idea di come sarebbe stato lavorare esattamente al confine tra due paesi; o forse è meglio precisare che una certa idea ce l’avevo pure: sì, quella mediata dalla stampa straniera, più che altro quella italiana!
Non nascondo che quando finalmente presi l’aereo, il 23 agosto, i miei sentimenti erano abbastanza contrastanti. Erano un misto tra eccitamento, timore e una buona dose di curiosità.
Ricordo che una delle prime cose che mi sorprese fu che gli abitanti del confine turco, quello in cui io chiaramente risiedevo e lavoravo, non sapessero alcuna parola del dialetto arabo parlato al di là del confine, cioè 100 passi più in là. Questo, a parere di una profana, poteva dirla lunga sui rapporti tra i due paesi: in realtà non era e non è così.
Per una come me, nata ai confini tra l’Italia e l’Austria, è parso paradossale questa situazione, più ancora lo era quando vedevo per strada moltissimi profughi siriani che alloggiavano temporaneamente in questo piccolo avamposto di nome Karkamiş.
Intere famiglie – alcuni giorni mi pareva addirittura che ci fossero molti più profughi che abitanti locali – trascorrevano il loro tempo caricando grandi valige ricolme di ogni loro speranza in attesa di essere “collocati” dalle autorità turche.
Sorte contraria capitava invece all’incredibile carovana di beni di prima necessità (latte, pane, pannolini, etc…) che venivano caricati inverosimilmente su alcune auto ogni giorno – ripeto, ogni giorno – ed erano destinati ai villaggi siriani vicini.
Detta così sembra una normale situazione di confine, stessa routine quotidiana: qualche aiuto umanitario, pullman che partono, gente in fila in attesa di un futuro migliore.
Ma quindi la situazione non era poi così tanto disperata come leggevo sui giornali se c’era ancora gente che riusciva a fuggire in tutta calma? E invece no, perché al di là del filo spinato gli spari e le mitragliate erano all’ordine del giorno. Fossero solo quelli! E poi ambulanze e urla di uomini e bambini.
Addirittura un giorno una mia collega mi raccontò di avere visto alcune donne con bambini piangenti correre in gran fuga verso il confine turco mentre i colpi da sparo risuonavano incessantemente.
E noi? Già, noi impavidi archeologi europei che per un’esperienza prestigiosa in più sul curriculum avevamo accettato il rischio di lavorare su una zona al confine con la Siria in guerra. L’ho capito solo in quei giorni che cosa realmente significasse e per la prima volta nella mia vita ho odiato la mia tanto amata professione.
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