Mitografie

Da Narcyso

Giuseppe Vetromile, Aldo Ferraris, Vincenzo Di Maro, Paola Casulli,  Mitografie, Kairos 2012

Quattro poeti si confrontano, per progetto, con un mito: (Vetromile/Ulisse, Ferraris/Demetra, Di Maro/Orfeo, Casulli/il centauro Chirone). Ne nascono quattro poemetti densissimi, introdotti suggestivamente dagli stessi autori in prose poetiche che, senza fronzoli, si sposano col tema e lo chiariscono.

Vetromile elabora il tema di un Ulisse minore, un navigatore secondario che non ha nulla da urlare, figura coincidente con un piccolo uomo che si porta addosso il grave fardello della vita, piuttosto che la gloria di un racconto di vittorie.

Ferraris sceglie  una figura femminile, la Demetra tripartita nell’aspetto di Persefone, la maturità, di Ecate, la vecchiaia, e di Kore, la rinascita. “Ma Demetra, la Triplice Dea, è anche donna, nella sua carnalità”, di cui Ferraris sa contemplare la pienezza dell’esperienza, senza fratture e censure.

Di Maro affronta il tema della morte del padre in una intensa sequenza di riferimenti al viaggio di Orfeo, e di un figlio/Euridice che vorrebbe riportarlo alla vita, nella formulazione, raggiunto l’età adulta, della domanda impronunciabile sul senso della morte e sul ruolo dell’essere figli, rimasti a dire parole, a compiere gesti a cui occorre trovare un senso.

E infine Paola Casulli problematizza il mito del centauro Chirone -  l’unico, fra tutti i centauri, saggio e pacato, desideroso di morire per il dolore provocatogli da una freccia avvelenata – col tema, altrettanto doloroso della richiesta di eutanasia di Piergiorgio Welby, per dignità di vita  “Purtroppo ciò che mi è rimasto non è più in vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche”.

Scritture diversissime e bellissime accomunate, mi sembra, da un tema sottostante che è quello del corpo: corpo “navigato”, ferito e reso più consapevole dal viaggio, fino alla resa in altro corpo che sa accogliere: “Non dimenticarla piccolo Ulisse/non dimenticarla mai”, (Vetromile); corpo luminoso, capace di assorbire in sé tutti gli opposti, donandosi nel pasto necessario della vita e della semplice bellezza: “È l’amare senza ragione che placa/ è questo incendio di petali che acceca”, (Ferraris); corpo che diventa ombra, immemore della vita, lasciando ai vivi l ‘eredità di una domanda a cui neppure il canto può rispondere: “Pian piano rinuncio a capire, ti riduco a un’icona della nostalgia”, (Di Maro); corpo che non è più pienezza di sensi e di vita,  defraudato persino della condizione di ricevere pace, attraverso un gesto di libero arbitrio: “Il mio corpo ciglia vene pelle e anima /vertigini nel regno di molte mandragore”, (Casulli).

 Sebastiano Aglieco

Hamburg, agosto 2013

 

***

 

Nessun porto è nuova casa

E’ l’antica fame che ti porta a curiosare
sotto la veste del sole cosa ci sia di nuovo
tra i fascini e i miraggi delle isole. Ma non c’è
Ogigia né Calypso a dare carne alle tue voglie
lungo i corridoi spogli del secolare ricapitolio
grasso d’inutili parole. Il mare è ricco di fortune,
capitomboli per valenti guerrieri e pescatori
d’azzardo: noi piccoli mozzi inconsueti mansueti
ascoltiamo le vele stazzonare all’alito caldo
e arrestante di bonaccia

Mai,
in nessun porto troveremo pace.

(Giuseppe Vetromile)

***

Kore

Ti inseguo come può una nuvola
la grandine del tuo costato,
percorro strade bagnate dal canto
di uccelli liberati dalla morte

ma nessuna epifania né parola
conosce il segreto della tua fioritura,
né il segno inciso dal desiderio
sulla corteccia che cela la tua verginità.

(Aldo Ferraris)

***

Orfeo

Di notte ai templi, lungo i colonnati
onoravamo il dio degli invisibili:
l’amore era il crepuscolo degli sfuggiti,
fecondava il teatro delle ombre.
Avvicinarsi al telo, far cadere dagli omeri
i nomi, come tuniche. E udire il grido,
voltarsi, riconoscerci.
Fummo lo specchio che abbiamo abbandonato.
Ora l’avanti ci cancella il volto,
non riflette nessuna delle due verità.

(Vincenzo Di Maro)

***

(Welby)

Se tu sei ciò che dici
radunami i pezzi sparsi, scampoli,
brandelli senza madre né specie.
Che io senta la tua voce,
terso patibolo senza sangue di innocenti
dove solo sia l’orecchio ermetico offuscato
al suono dell’Assoluto.

Sfamami: ed io ritroverò languida origine della mia presenza.

Si allarga un’eco calda alle finestre
verrò in te se finalmente queste ossa prigioniere
potranno piangere di primavera.

Giacere nudi come l’uomo che giace negli Eden
respirare come il serpente tra l’origine e la fine
minutissimo rettile tra il guanciale e il nudo ombelico,
trasalimenti e visioni del Dio
non restino che novero di onesti passati.

Ho vissuto.

L’atrofia di un momento non era legge
ma caduta.

Sono uscito dalla mia stessa pelle
nell’apparenza contabile
di giorni agili come gazzelle.

Ridivento futuro
per la prossima fessura di vento.

(Paola Casulli)


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