[Japan] Lupin III. Il castello di Cagliostro (1979, tit. or. ルパン三世カリオストロの城, Rupan sansei: Kariosutoro no shiro) è un classico dell'animazione giapponese e fa parte di quel patrimonio di tesori che Miyazaki Hayao aveva realizzato prima che esplodesse la sua fama in Europa con lo Studio Ghibli. Riprendendo i caratteri di una famosissima serie animata televisiva, il maestro giapponese ha realizzato un lungometraggio che non solo non tradisce, bensì addirittura esalta l'anima dei diversi personaggi e l'iperbolica, burlesca, scintillante ventura che li accompagna sempre.
La storia prende avvio da una rapina in banca, in seguito alla quale Lupin e Jigen si rendono conto di essere entrati in possesso di soldi falsi. Si mettono in testa di raggiuingere il luogo dove questo denaro veniva fabbricato e per caso si imbattono in una ragazza, Clarisse, che viene inseguita in auto da misteriosi uomini: i nostri ladri-eroi aiutano la giovane, salvo poi vederesela rapire davanti ai propri occhi. Lupin e Jigen naturalmente non si arrendono e, nel tentativo di strappare Clarisse ai suoi aguzzini, arrivano al famoso castello di Cagliostro, dove fervono i preparativi per un matrimonio importante che cambierà le sorti del ricchissimo staterello (e non solo). A loro si unirà l'immancabile Goemon, con la sua ascetica afasia e la sua irrinunciabile esattezza.
Lupin III. Il castello di Cagliostro ha ormai trentacinque anni, eppure appassiona e diverte come un film appena girato. In particolare, se si considerano i tempi relativamente lunghi di progresso nell'animazione, questo film ha del miracoloso per il gusto e le soluzioni che lo caratterizzano (per esempio, l'acqua, pur meno fluida, è già quella che conosciamo nei più moderni anime di Miyazaki; e perfino il taglio delle luci ha un suo linguaggio maturo e riconoscibilissimo, con il loro rivitalizzante contrasto caldo/freddo). I disegni sono, come sempre, stupendi, forse i colori sono più accesi e fiabeschi, ma lo spettatore gode di questa leggera e scarmigliata inverosimiglianza come di un'invenzione-dono del regista per il suo pubblico.
Il mondo di Lupin è come sospeso, la gravità è un orpello, un gadget come l'equilibrio più che felino dei simpaticissimi eroi. L'atmosfera onirica di Miyazaki diventa qui beffarda e ironica, nella sospensione di ogni legge del buon senso. Come su un tavolo d'azzardo, si gioca al rilancio usando come posta i personaggi e l'assurda e semplice felicità di Lupin ne è la ricompensa preziosissima. I nostri beniamini non hanno paura e non hanno praticamente limiti, possono giocare con il proprio corpo come se fossero gli autori dei loro disegni.
In alcune sequenze, il livello di comica burla rischia addirittura di apparentarsi ad altre famose - e diverse - serie animate televisive (io, per storia personale, penso a Yattaman, ma senz'altro ciascuno potrà trovarvi ben altro di più pregnante). È tutta questione - anche per i più restii - di sprofondare nell'avventura dell'animazione e di abbandonarsi alle sue dinamiche. Ma pochi generi cinematografici moderni affondano le loro radici con tale profondità nella più ampia e sconfinata cultura contemporanea, permettendo livelli di empatia e di riscrittura personale così diversi.