Mladic: dalla latitanza, all'arresto, al processo

Creato il 16 maggio 2012 da Pasudest
E' iniziato questa mattina davanti al Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia, all'Aia, il processo a carico dell'ex generale serbo-bosniaco, Ratko Mladic, arrestato a maggio dello scorso anno in casa di un parente a Lazarevo, villaggio 80 km a nord-est di Belgrado, dopo 16 anni di latitanza.
L'ex capo militare delle forze serbo-bosniache, che secondo l'atto d'accusa redatto dal Procuratore capo del Tribunale internazionale, Serge Brammertz, è stato parte di una "impresa criminale comune" finalizzata "a cacciare per sempre i bosniaco-musulmani e i croato-bosniaci", deve rispondere di due genocidi, cinque crimini contro l'umanità e quattro crimini di guerra, per un totale di 11 capi di accusa per i quali rischia l'ergastolo. Il crimine più grave di cui è accusato è il genocidio di Srebrenica, dove, nel luglio del 1995, furono trucidati più di 8000 bosgnacchi che avevano cercato rifugio nell'enclave che avrebbe dovuto essere protetta dalle truppe dell'Onu.
Mladic visibilmente invecchiato e con la parte destra del corpo semi paralizzata da due ictus, subiti nel 1996 e nel 2008, "continua a pensare di non aver nulla a che fare con i crimini ed è persuaso che sarà giudicato non colpevole", come ha dichiarato il suo avvocato.
Qui di seguito un analisi che ricostruisce in sintesi e analizza l'evoluzione del contesto politico interno della Serbia e di quello internazionale in cui si sviluppò la vicenda della latitanza di Mladic, dalla caduta di Milosevic fino all'arresto dell'ex generale, un anno fa.
L'autore è Riccardo De Mutiis, esperto di relazioni internazionali, particolarmente sotto il profilo giuridico, conoscitore della realtà serba e di quella balcanica più in generale, anche per aver partecipato a diverse missioni di carattere politico patrocinate da istituzioni internazionali.
MLADIC, DALLA LATITANZA AL PROCESSO: IL CONTESTO POLITICO E INTERNAZIONALE
di Riccardo de Mutiis
Maggio 2001, L’Aja, ufficio del Procuratore generale presso il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia, Carla Del Ponte.
Viene introdotto, attraverso un accesso secondario, Nebojsa Vujovic, ex chargè d’affaires presso l’ambasciata jugoslava a Washington, appena nominato responsabile per le relazioni con il Tribunale dal governo dell’Unione di Serbia e Montenegro (il soggetto politico succeduto nel 2003 alla Jugoslavia, a cui , nel 2006, all’indomani della dichiarazione d’indipendenza del Montenegro, succederà la repubblica di Serbia).
Le parole di Vujovic sono chiare: “Il Tribunale è diventato la questione di politica estera più pressante per il mio governo […] Il futuro della Serbia dipende dalla cooperazione con il Tribunale, la cooperazione determinerà l’accesso o meno della Serbia al processo di adesione all’Unione Europea […] Contiamo di consegnarvi Ratko Mladic entro due o tre mesi”.
“Dovete arrestare Mladic entro la settimana prossima”, è la replica della Del Ponte.
L’ arresto del comandante in capo delle forze serbe durante la guerra di Bosnia, Ratko Mladic, in esecuzione di un mandato emanato dal Tribunale internazionale, che lo ritiene responsabile per la strage di Srebrenica in cui trovarono la morte circa 8000 civili, non avviene né, come aveva richiesto la Procura, entro una settimana, né, come aveva assicurato Vujovic, entro due o tre mesi, ma solo 7 anni dopo, il 28 maggio 2011.
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Ad un anno dall’arresto di Mladic, può essere interessante da ricordare il contesto politico interno ed internazionale cui si verificò tale evento. Il richiamo allo scenario internazionale è scontato: è infatti pacifico che l’arresto di Mladic si inserisce nel tema della cooperazione della Serbia con gli organismi internazionali e quindi nel più generale ambito della politica estera dello stato balcanico. Tale politica, a partire dal 2001, anno della scomparsa dalla scena politica di Slobodan Milosevic, è stata caratterizzata da un approccio contraddittorio, che riflette le diverse anime delle due forze politiche che si contendevano il potere.
Quella nazionalista moderata, riconducibile al leader del DSS (Demokratika srpska stranka - Partito democratico serbo) Vojislav Kostunica, giurista, espressione della Serbia più profonda, tradizionalista e rurale, decisamente contrario alla consegna al Tribunale penale per crimini commessi nell’ex Jugoslavia dei cittadini serbi incriminati da quell’organo giudiziario, in quanto vede in tale consegna una inaccettabile cessione della sovranità nazionale, convinto al contrario che gli imputati di nazionalità serba debbano essere giudicati da un tribunale serbo.
Quella progressista, che fa capo al leader del DS (Demokratika stranka - Partito democratico) Zoran Djindjic, tecnocrate europeista che ha studiato e lavorato in Germania, convinto che solo la riammissione della Jugoslavia a pieno titolo nei circuiti internazionali, da cui era stata esclusa a seguito dei conflitti interni scatenati in Croazia, in Bosnia ed in Kosovo, potrebbe risolvere la drammatica crisi economica in cui il Paese si dibatte da più di un decennio, e quindi senz’altro disponibile a soddisfare quella condizione, la consegna dei criminali di guerra al Tribunale dell’Aja, a cui la Comunità internazionale subordina l’erogazione di aiuti economici alla nazione balcanica.
Kostunica e Djindjic sono i pilastri del DOS, l’alleanza politica che sconfigge Milosevic ed il suo Partito socialista, prima alle elezioni presidenziali dell’ottobre 2001, a seguito delle quali Kostunica viene eletto presidente della Federazione jugoslava, e poi alle elezioni parlamentari serbe del 23 dicembre 2001, che determinano la nomina di Djindjic a primo ministro della repubblica federata serba. Ma si tratta di una alleanza strumentale, finalizzata esclusivamente a sconfiggere Milosevic: in realtà i due uomini, Kostunica e Djindjic, diversi per formazione culturale e per carattere, non sono fatti per intendersi, ed il dissidio scoppia proprio in occasione dell‘arresto di Milosevic e della conseguente consegna dello stesso al Tribunale dell’Aja, operazione decisa e portata a termine da Djindjic all’oscuro, pare, di Kostunica, il quale la contesta energicamente sostenendo che il vozd debba essere giudicato da un tribunale jugoslavo.
Zoran Djindjic muore il 12 marzo 2003, assassinato nel centro di Belgrado, e sembra che il movente dell’omicidio sia connesso proprio all’arresto di Milosevic: secondo la lettura più accreditata, infatti, il mandante dell’assassinio, Milorad “Legija” Ulemek, alias Lukovic, esponente di spicco delle “Crvene beretke” (Berretti rossi), l’unità antiterrorismo che nei fatti fungeva da milizia privata di Milosevic, agisce perché ha appreso che Djindjic ne aveva deciso l’arresto, violando in tal modo la promessa di impunità in cambio della quale lo stesso Lukovic non si era opposto all’arresto del suo protettore.
Il testimone di Djindjic alla guida del partito viene raccolto da Boris Tadic, anch’esso convinto della necessità di cooperazione con il Tribunale Penale Internazionale e quindi contrario al tenace ostruzionismo di Kostunica, divenuto nel 2004 primo ministro, di fronte alla richieste di cooperazione, ed in particolare di consegna degli imputati di nazionalità serba, provenienti dal Procuratore generale del Tribunale, Carla Del Ponte.
La determinazione a non collaborare di Kostunica prevale per diversi anni ed è evidenziata, oltre che dal rinvio sine die dell’approvazione della legge sulla cooperazione con il Tribunale internazionale, anche dal fatto che le autorità di Belgrado accolgono solo una delle 77 richieste della Procura generale di interrogare i testimoni serbi nel processo contro Milosevic e consegnano al Tribunale solo imputati di basso calibro.
E proprio l’atteggiamento di chiusura di Kostunica provoca una crisi tra l’ONU, organizzazione che ha creato il Tribunale dell’Aja, ed il Tribunale stesso, se è vero che gli appelli della Del Ponte alla Comunità internazionale perché condizioni l’erogazione dei finanziamenti alla Jugoslavia alla cooperazione della stessa con il Tribunale vengono stigmatizzati dal Segretario generale dell’organizzazione, Kofi Annan, il quale invita il Procuratore generale ad astenersi da tali dichiarazioni ed a “limitare i suoi interventi a questioni che più direttamente rientrino nella sfera delle sue competenze”.
Nonostante il perdurare del dissidio circa la politica internazionale, DS e DDS stringono una nuova alleanza di governo: l’obiettivo non è più quello di far fronte comune contro Milosevic, ma quello di neutralizzare il partito di maggioranza relativa, il Partito radicale serbo (SRS - Srpska radikalna stranka) dell’ultranazionalista Vojislav Seselj, ex leader della milizia privata dei “Bijeli orlovi”, le “Aquile bianche”, al tempo della guerra di Bosnia , anch’esso imputato per crimini di guerra ed autoconsegnatosi al Tribunale dell’Aja.
La rottura dell’alleanza tra DS e DDS, si consuma alle elezioni presidenziali del 2008: Kostunica ed il suo partito non appoggiano la candidatura di Tadic che, ciò nonostante, si impone al ballottaggio nei confronti di Tomislav Nikolic che medio tempore aveva sostituito Seselj alla guida dei radicali. Ed è innegabile che proprio a far data dalla elezione di Tadic alla presidenza serba la politica estera dello stato balcanico si caratterizza per una lenta ma progressiva evoluzione verso posizioni europeiste e collaborative con le organizzazioni internazionali.
Gli elementi sintomatici di tale evoluzione sono di tutta evidenza: proprio a partire dall‘elezione di Tadic inizia una serie di concessioni reciproche tra Serbia ed Unione Europea che non possono essere considerate casuali ma sono invece parte di una precisa strategia. Infatti l’Unione Europea, nell’aprile 2008, a distanza di appena due mesi dall’elezione di Tadic, stipula con il governo serbo quell’accordo di associazione e stabilizzazione che prelude all’ingresso nell'Unione e che era in cantiere da diversi anni.
Passano nemmeno tre mesi e la Serbia ripaga l’Unione Europea della fiducia concessagli effettuando l’arresto, il 30 luglio 2008, del numero due sulla lista dei ricercati per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, l’ex leader dei serbi di Bosnia Radovan Karadzic, la cui imputazione risale addirittura al 1996.
Il fatto che Tadic sia stato in grado di effettuare l’arresto di Karadzic in pochi mesi, mentre al suo predecessore Kostunica non erano stato sufficienti 8 anni dimostra, se ve ne fosse bisogno, l’attendibilità della tesi secondo cui Kostunica avrebbe potuto arrestare Karadzic e sapeva perfettamente dove questi si nascondeva (ed infatti il ricercato viene intercettato a Belgrado, e non in un posto sconosciuto e inaccessibile) ed invece aveva preferito persistere in quell’atteggiamento ostruzionistico e non collaborativo, definito “muro di gomma“ dal Procuratore generale Del Ponte .
Nel dicembre 2009 si registra un ulteriore segnale di apertura dell’Unione Europea: la liberalizzazione del regime dei visti per i cittadini serbi.
Questa volta la risposta di Belgrado si fa attendere, ma è quella che la Comunità internazionale attende da circa 15 anni: l’arresto del numero uno della lista dei ricercati del Tribunale dell’Aja, appunto Ratko Mladic. E le modalità attraverso le quali è stato effettuato l’arresto di Mladic consentono di cogliere altre interessanti implicazioni della vicenda.
L’ex generale è stato arrestato nell’abitazione di un familiare e quindi in un posto in cui era del tutto logico effettuare delle ricerche: e se Mladic è stato costretto a rifugiarsi presso un parente, con rilevanti probabilità di essere scoperto, ciò significa, evidentemente, che tutte le coperture di cui godeva a livello politico e soprattutto militare erano venute meno, e se l’influente esercito serbo ed i potenti servizi segreti non sono più in grado di offrire protezione a Mladic ciò vuol dire, implicazione di notevole rilievo, che essi hanno cessato finalmente di costituire uno Stato nello Stato e non sono più in grado, come in passato, di condizionare le scelte politiche.
Il progresso della Serbia verso posizione europeiste, è proseguito anche dopo l’arresto di Mladic, sia pure con qualche intoppo, fino ad oggi. Il percorso è stato difficile nell’ultimo anno, a causa del riaccendersi della questione kosovara, che vede Serbia ed Unione Europea su posizioni opposte, ma ha registrato un passo in avanti decisivo: il conferimento dello status di candidato all’ingresso nell’Unione allo stato balcanico.
Si può affermare, in definitiva, che lo spostamento su posizioni europeiste della Serbia, di cui l’arresto di Mladic costituisce un'importante prova, conviene ad entrambi gli attori di questa vicenda: conviene all’Unione Europea perché attraverso l’imposizione delle regole e delle modalità di controllo comunitarie riuscirà verosimilmente a stabilizzare una area le cui tensioni, in passato, si sono propagate agli Stati dell’Unione, e conviene alla Serbia perché le consente di godere di quegli incentivi di cui la sua asfittica economia ha decisamente bisogno e perché consente ai suo cittadini, attraverso la liberalizzazione dei visti a cui si è fatto riferimento, di potere viaggiare liberamente, dopo circa 20 anni di isolamento, e di avere quindi la possibilità di quel confronto diretto e di quello scambio culturale con altre realtà che è il presupposto irrinunciabile per lo sviluppo di ogni società civile.

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