Ieri, navigando qua e là, sullo schermo del mio computer sono comparse queste parole: “L’essere contenti non ha nulla di affascinante… La felicità non è mai grandiosa”. Ieri, ho letto questa frase, e mi era sembrata una buona frase. Condivisibile, comprensibile, vera.
Poi ci ho riflettuto, e mi è sembrata una minchiata, con aggravante di banalità.
Di parte non sono, perché sono ugualmente felice e triste, dubbiosa sempre, spensierata a tratti.
E insomma, ci ho pensato. E ho pensato che c’è felicità e felicità e che qualche felicità è sublime, qualcuna grandiosa, talaltra volgare.
I più pessimisti converranno che molto spesso la felicità non è che un’illusione, un punto così passeggero, che in vero passò non raggiunto. E converranno ancora, che non c’è dolore più grande e poetico dell’illusione e della sua fedele compagna, la realizzazione della verità.
Nel mio paese, ci sono tante casette, in campagna, che presentano netto netto un muro, che sembra tagliarle, troncarle, e le rende delle vere e proprie case a metà. Le avete mai viste?
Quando ero piccola, chiedevo a mio padre perché quelle case avessero una facciata completamente priva di finestre, decorazioni, portone, in certi casi vernice. Mi sembrava una cosa piuttosto sciocca costruire una casa e lasciarne una parte così, brutta e spoglia, e in quella brutta facciata non bucarci qualche finestra per godersi la luce. Appresi che erano costruzioni incomplete, pensate come le prime metà di case che dovevano diventare più grandi, più belle, e curate e finestrate a tutto tondo. “Pensavano di finirla”, diceva mio padre.
E’ forse da allora che il verbo pensare, volto al passato, mi fa venire voglia di cucirmi la bocca e tapparmi le orecchie. E quando fantastico e penso qualcosa sul futuro, ho sempre questo spettro davanti, del mio penso che mi si trasforma sotto il naso in un pensavo o, nella peggiore delle ipotesi, in un Prisca pensava.
Voi mi direte, sì, okay, però stai elogiando la grandiosità della disillusione, ch’è miseria e tristezza, ed eccoti d’accordo con la posizione che criticavi. E infatti.
Però, io trovo che un certo tipo di felicità, una felicità raggiunta, non scontata, non banale, non la gioia ruspante di chi fa il conto alla rovescia per andarsi a bagnare sulla riviera romagnola, ma una felicità composta, o scomposta, ma bella, prepotente o delicata, una felicità che fa esplodere il cuore, abbia tanta poesia, quanta poesia hanno un certo tedio, una certa sofferenza, una certa tristezza.
E se viene da dire che ogni gioia è un po’ triste, ogni felicità un po’ sofferente, è perché si è abituati a pensare alla fragilità, alla delicatezza, alla bellezza, come di per sé legate all’aggettivo triste. E si fa così solo un gioco di parole.
E’ tutta colpa di quei maestri che da piccoli ci lasciano cadere in quel grosso equivoco per cui il Romanticismo -la corrente artistica, intendo- sarebbe pessimismo, quando invece è giusto giusto l’opposto. La mia immagine di Romanticismo è stata per molto tempo quella di una città piena di persone povere, tristi e dal cuore in fiamme, che nel camminare sollevano polvere e sabbia da terra, cosicché le loro facce non si vedono più e spuntano solo lembi di stoffa bordeaux qua e là in mezzo alla polvere. E la mia idea di poesia è stata a lungo un analogo del Romanticismo, e fate due più due.
L’equivalenza tra tristezza è poesia è quasi sempre figlia di questo equivoco. E la felicità, così bistrattata, ha bisogno di difensori.
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