BICEFALO - Vuoto o con il cervello? E... il cuore?
In modo praticamente inevitabile lo Stato si è venuto sostituendo ai privati e ad associazioni private in grane parte della vita e della organizzazione della cultura. E’ un processo che inizia da lontano. Oggi, in Italia, più marcatamente ma non diversamente che altrove, l’intervento pubblico (dello Stato articolato in Regioni ed enti locali) è determinante per campi e settori intieri. Innanzitutto la scuola, da quella dell’infanzia all’università, la ricerca scientifica, l’informazione radiotelevisiva, i beni culturali. Ma non vi potrebbe essere attività musicale << colta >> senza l’intervento pubblico. Il teatro, il cinema, le arti visive, l’informazione scritta, l’editoria, le istituzioni culturali private – e l’elenco è lacunoso – abbisognano dell’intervento pubblico. L’articolo 9 della Costituzione fonda e prescrive la possibilità e anzi il dovere di questo intervento: << La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione >>. L’immagine di un ritorno all’indietro non è neppure pensabile. Quando, per esempio, si avanzano tesi contro la scuola pubblica nessuno chiede la sua pura e semplice sostituzione con un qualche tipo di scuola privata << pura >>. << Enti privati – recita l’articolo 33 della Costituzione – hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato >>; ma non è a questo articolo che si fa riferimento quando si attacca la scuola pubblica. Si sostiene, piuttosto, la teoria di uno Stato come puro e semplice erogatore di somme di danaro per sostenere scuole di natura ideologica. Questa tesi è aberrante perché fonda il pluralismo – contro la Costituzione- sulla separazione delle scuole secondo il convincimento politico, ideologico o religioso dei genitori. Una tale concezione, oltre ad essere anticostituzionale, sarebbe chiaramente volta a determinare una separazione permanente e di principio tra i cittadini. Tuttavia è caratteristico che chi la sostiene non chiede la fine dell’intervento pubblico ma un suo snaturamento costituzionale. E’ la prova a rovescio, cioè, del fatto che – ormai – la tesi di una autentica e totale privatizzazione della sfera dell’attività culturale è improponibile e impraticabile. Ciò non significa, naturalmente, che siano omogenee le visioni di ciò che debba essere l’intervento pubblico. La lotta, che dura dal momento stesso in cui si è avviata l’esperienza del nuovo Stato fondato dalla battaglia antifascista , dalla Resistenza e dalla Costituzione, è pienamente aperta. Il movimento operaio – e in esso i comunisti – ha portato un suo decisivo contributo in questa battaglia volta ad applicare (ma applicare significa anche – e necessariamente – interpretare) il dettato costituzionale. Il primo è più grande impegno (e vittorioso alla fine) fu quello per far rispettare la disposizione della Costituzione che impone << almeno otto anni >> di istruzione inferiore << obbligatoria e gratuita >>. Al tempo stesso, fin da anni lontani, si lottò per modificare i contenuti del processo della istruzione pubblica. I risultati – tuttavia – non furono grandi per le sostanziali resistenze conservatrici in ogni campo ma anche - e sopratutto – per l’orientamento politico complessivo impresso al paese: che fu quello volto a ignorare, o a porre in disparte, gli aspetti innovativi della Costituzione. Non a caso l’articolo 9, sulla cultura, è iscritto tra << i principii fondamentali >> che aprono la Carta costituzionale. Esso non può che essere letto, dunque, nel contesto in cui è collocato. Il riferimento evidente è, in questo caso, al secondo comma dell’articolo terzo: << E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese >>.
riciclare.
Una nuova funzione per la cultura.
Ora, tra questi ostacoli posti all’eguaglianza, alla libertà, allo sviluppo della persona umana, alla piena partecipazione non è dubbio che sia determinante il difetto di istruzione, di conoscenze, di cultura cui sono state condannate, nei secoli, masse immense di popolo, senza dubbio la sterminata maggioranza del genere umano e, quindi, del nostro popolo. L’accusa più rilevante e bruciante che deve essere mossa al sistema capitalistico è che, sorgendo esso stesso e sulla base di un progresso scientifico-tecnico imparagonabile con le precedenti età, non ha saputo in alcun modo colmare questo difetto. Quando, anche per effetto del processo di scolarizzazione di massa, parte della gioventù studentesca levò, nel 1968, un’accusa di fondo alla istituzione scolastica e universitaria essa colse, al di là di limiti e di errori anche gravi, un problema grande e reale, e colse, al tempo stesso, un ritardo nella elaborazione e nella lotta dello stesso movimento operaio. La questione è appunto quella della funzione delle istituzioni culturali; del senso e della finalità dell’intervento pubblico nella cultura (e, per estensione, del funzionamento di tutti quegli apparati che sono volti alla riproduzione dei rapporti esistenti nel campo della struttura economica della società). La lotta del movimento operaio aveva sì colto – anche efficacemente – la esistenza di uno scontro di linee ideali e culturali su tutto questo problema. Ma, anche al di là di irrigidimenti schematici o dogmatici (che pure furono di serio ostacolo alla comprensione piena del problema), non fu complessivamente abbracciata – in senso gramsciano – l’insieme della questione del lavoro intellettuale, del suo senso e della sua funzione in una società democratica fondata su una Costituzione come quella italiana e cioè volta ad una progressiva attuazione dell’eguaglianza, della libertà, dello sviluppo della persona umana, della piena partecipazione dei cittadini. Si aprì così una stagione di ripensamento sulla funzione delle istituzioni culturali, sulla loro importanza decisiva ai fini del modo di essere della società e dello Stato. L’attenzione si concentrò, in particolare da parte dei comunisti, sui processi di riforma da aprire in ciascun campo – e non solo nella scuola – sino a cercare di comporre, come è avvenuto in questo anno, un quadro d’insieme anche in tutto il settore culturale del progetto a medio termine. Il senso complessivo di questa impostazione, riassunto al Convegno dell’Eliseo, fu quello della ridefinizione del compito delle istituzioni culturali e, dunque, della funzione dei lavoratori intellettuali. Per giungervi occorreva una preventiva chiarificazione concettuale, resa possibile dal dibattito sterminato e praticamente ininterrotto tra i comunisti e tra essi e altri, di diversa posizione politica particolarmente dopo il 1956. Questa chiarificazione tendeva e tende a distinguere il concetto di autonomia della cultura e della ricerca da quello di separazione, come concetti tra di loro diversi e, per molti aspetti, opposti. Senza piena autonomia e libertà della ricerca e della cultura non si dà, in effetti, ricerca autentica; ma se l’autonomia diventa separazione essa si trasforma nel suo contrario e cioè in una nuova forma di assenza di libertà o di una nuova forma di subalternità. In effetti, il processo, di voluta confusione tra questi due piani è realmente avvenuto, in larga misura, nella pratica dell’ultimo trentennio: in nome dell’autonomia la pratica di governo è venuta attuando una separazione e, al limite, una emarginazione della cultura.
misurarsi.
Protagonisti del mutamento.
Ciò si spiega con il fatto che le classi dominanti e il Partito democristiano hanno sviluppato una politica in cui non solo non si avvertiva il bisogno di un ampio spazio di ricerca e di elevamento culturale, ma si avvertiva talora un bisogno opposto. Dava fastidio da una parte l’inquietudine e il dubbio impliciti in ogni riflessione critica sulla società; dall’altra diveniva impossibile, per i vincoli posti da una politica determinata oltreché dal sistema stesso, una piena utilizzazione delle scienze della natura. Invano si levarono, in molti campi (da quello dell’urbanistica a quello dell’energia, dell’agricoltura, del modo dello sviluppo industriale, ecc.) gli ammonimenti di ricercatori e di tecnici. E’ questo corso che occorre mutare. Esiste il problema specifico dell’elevamento culturale di massa: un problema di diffusione del sapere, delle conoscenze, delle possibilità di utilizzazione e di godimento del patrimonio culturale accumulato. Esiste, insieme, il problema generale del rapporto di ogni politica di settore con la ricerca culturale e scientifica che vi corrisponde. A ciò noi cerchiamo di lavorare. Non chiediamo alle masse dei lavoratori intellettuali di farsi puri e semplici << fiancheggiatori >> della lotta della classe operaia. All’opposto: chiediamo di essere protagonisti del mutamento battendosi innanzitutto per modificare – risanando e rinnovando – l’istituzione di cui fanno parte: dalla scuola, al laboratorio di ricerca, all’istituto di cultura di ogni sorta. Il senso generale di questo mutamento è per noi quello di tendere a modificare nel senso che la costituzione indica la finalità di queste istituzioni. Esse sorsero – nella loro storia spesso secolare – come strumenti volti a perpetuare il dominio sopra le masse sfruttate e oppresse. Nella loro complessa vicenda non hanno prodotto però soltanto ciò che le classi dominanti ad esse chiedevano: al contrario – per la dialettica del reale e delle idee – hanno costituito anche e contemporaneamente strumenti concettuali e pratici di modificazione. Di qui occorre partire in relazione ai problemi attuali del Paese e ai bisogni delle masse. Non si tratta, com’è ovvio, di una concezione riduttiva del lavoro intellettuale: per esempio, di una richiesta di una minore carica di dubbio e di critica. Tanto meno si tratta di una posizione che tenda ad una qualche forma di narcotizzazione del dissenso (o – per meglio dire – dei reciproci dissensi). Si tratta, perfettamente al contrario, di sollecitare accanto al dibattito permanente (stavo per scrivere << eterno >>, se non fosse un’espressione vagamente retorica) un impegno a scendere nell’arena partendo dalla specificità del lavoro intellettuale. Non ci può essere una politica giusta senza il più ampio e fecondo respiro culturale. Ma, al tempo stesso, una cultura che rifiuti di misurarsi con il dramma del presente nega se medesima. (A.Tortorella, La cultura e la scienza per lo sviluppo civile ed economico, almanacco pci, anno 1978).
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ITALIA
Tagore nel 1889.
Dissi a Te: O Regina,
come molti altri innamorati che hanno recato i loro doni
ai tuoi piedi,
sono giunto come un’allodola alle porte dell’Aurora,
solo a cantare per Te e poi andarmene.
Dalla tua finestra mi parlasti attraverso il velo:
Ora è inverno, il mio cielo è scuro, il mio giardino
non ha fiori.
Dissi a Te O Regina,
ho portato il mio flauto dalla costa orientale poiché volevo
suonare per la luce dei tuoi occhi scuri.
Apri il tuo velo per me!
Tu dicesti in risposta: Torna indietro, mio impaziente,
poeta,
ché non ho ancora indossato i miei colori.
Nel dolce di maggio
quando siederò sul mio trono d’oro ti chiamerò
al mio fianco.
Dissi a Te: O Regina,
il mio viaggio ha portato ricco frutto nelle tue parole
di speranza.
Riscaldata alla brezza primaverile la magia
del tuo richiamo
sboccerà in fiori nelle lontane foreste.
-Rabindranath Tagore-
(dedicata alla Duchessa Lella Gallarati Scotti, 29 gennaio 1925)
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