” Famiglia , desiderio e genitali sono da sempre una sola cosa ” ( Kim Ki Duc )
70° mostra d’arte internazionale cinematografica a Venezia. 3 settembre 2013 : doppia proiezione per Moebius di Kim Ki-duk, fuori concorso (09.00, Sala Grande, e 14.30, Sala Perla), sua diciannovesima opera all’attivo. Gli spettatori affollano l’entrata, sono trepidanti, ma non ci sarà spazio per tutti loro. Ci sarà invece spazio successivamente per i loro reportage nei vari blog di cinema , dove tra una cronaca e l’altra, cominciamo a leggere di questo film e ad aspettarlo in sala anche noi con entusiastica attesa. Reduce dal Leone d’oro vinto la scosa edizione con Pietà, il regista coreano torna con una pellicola noir, efferata ed indomita, un film che rispetto ai precedenti sacrifica la lirica del soggetto, le metafore simboliche e la poetica della fotografia a favore di uno psico-dramma famigliare radicale, estremo e amarissimo come il fiele. Sfumature buffe e ironiche , rimandi mistici , atti inconsulti e disturbanti , sofferenza ,reazioni violente e pianto, si intrecciano con una naturalezza delle più crude e spiazzanti , il tutto a restituire allo spettatore un film che va oltre lo sbeffeggiamento di quest’ultimo o l’ esagerato ” pene-centrismo” di cui qualche critico celebre ha parlato. Inutile ribadire che per chi ama questo regista l’attesa è stata ancora una volta estenuante , ma questa volta all’attesa si è aggiunta l’ira ,la rabbia e la rivolta degli spettatori, dato che non solo a Venezia in molti non sono riusciti a vederlo , ma anche in molte sale d’Italia il film non è ancora arrivato e crediamo a questo punto che non arriverà mai . Repubblica infatti annunciava l’uscita del film nelle sale italiane il 5 Settembre , ma poi del film ad oggi non se ne è vista neanche l’ombra, se non nelle più piccole sale di Milano e Roma dove è stato tenuto per pochissimi giorni. Il film in primis è stato censurato in patria dall’ ente per il vaglio delle produzioni cinematografiche, la Korea Media Rating Board, che dopo la prima visione di un pre-montaggio della pellicola, l’ha ritenuta inadatta per la forte ed estrema violenza e le scene incestuose. Ecco il comunicato ufficiale con le motivazioni della censura coreana:
« La storia e i contenuti del film sono molto violenti, terrificanti e dannosi per un pubblico minorenne. Le espressioni antisociali e non etiche dei rapporti sessuali tra parenti diretti rendono la pellicola adatta alla distribuzione solo in un numero di cinema limitati. »
Leggendo questo comunicato, mi ritornano alla mente le recensioni tristissime e disagiate di Anselma dell’Olio da Marzullo o quelle moralistico-perbenistiche di Mollica , dove dal calduccio dei loro scranni borghesi-asserviti made in rai ,di solito palesano in occasione dei cult movies sempre un bigio rimando a quella pacatezza rassicurante ma allo stesso tempo noiosa ed incolore.
Chiarisco che io personalmente il film sono riuscita a vederlo soltanto ieri in versione non ufficiale, diciamo così, grazie ad amici cultori del cinema che saluto e ringrazio di esistere ( dikotomico.wordpress). La versione da me vista, in inglese e con sottotitoli in coreano, è godibilissima, poichè in questo film Kim Ki Duc potenzia la rarefazione del soggetto,” evirando” ogni dialogo , ma offrendo allo spettatore soltanto immagini e suoni di pianto, urla, dolore, percosse, e suoni di coltelli conficcati nella carne. A differenza degli altri film è del tutto assente quel simbolismo metaforico poetico-pittorico a cui il regista ci aveva abituati : il dolore e la disperazione non hanno filtri, e su questo concordiamo. Stati d’animo al limite della sopportazione non ammettono ricami poetici , nè tantomeno religione : la furia è cieca sì, proprio come l’amore che non ama appellarsi alla ragione. E’ questo un film a dir poco spiazzante, ancora una volta per niente rassicurante, un film per cui si stenta di primo acchito ad emettere un giudizio sensato. Perchè in effetti, non si può parlare come ha fatto ” Il Giornale ” ironizzando con dubbio humor di ” cult sui piselli recisi “. Nel suo palese nero estremismo infatti, Kim ki Duc mette in luce ancora una volta i risvolti e le ansie freudiane più recondite dell’animo umano, l’essenza della sessualità come identità e ragione dell’esistenza, polo dell’autoaffermazione e dell’autostima, linea di confine tra equilibrio e follia . Un uomo senza pene è in effetti un uomo a cui è stato tolto l’organo del piacere, del possesso, della riproduzione, un uomo il cui destino è inevitabilmente segnato : il piacere negato è il preludio della morte. E questo convincimento istintivo e potente sarà più forte di ogni richiesta e ricerca di consolazione divina che non potrà mai arrivare. No, senza il pene, no. Non c’è vita, non c’è famiglia, non c’è piacere.
Il dramma è ambientato in una famiglia coreana benestante e borghese. I personaggi principali sono tre , padre, madre , figlio. Lui ha un’amante e lei lo sa. La rabbia e la follia maturata di giorno in giorno la portano ad esplodere.
Sotto un mezzo busto di Buddha nasconde un coltello possente d’acciaio con cui una notte, invasa da indomita furia tenta di evirare suo marito. Non riuscendoci , riversa la sua rabbia contro il figlio, colpevole di essersi masturbato pensando alla scena di sesso tra padre e amante di cui è stato spettatore. Di qui parte lo sconquasso psicotico in un crescendo di rabbia, senso di colpa , violenza, dolore e follia che pervaderà tutto il film fino all’ultima scena. Il padre tenta di recuperare il pene del figlio, ma la madre, furente di rabbia, gli toglie ogni possibiltà di porre rimedio al dramma: ingoia il pene di suo figlio. Un atto disgustoso e folle, ma allo stesso tempo rappresentativo di un’identità femminile riscattata che da vittima diventa carnefice , non solo ingurgitando la sorte dell’intera famiglia ma soprattutto disintegrando la causa della sua distruzione. Intanto, mentre il ragazzo evirato vive il disagio di essere senza pene, cosa che lo porta ad essere anche oggetto di scherno da parte dei compagni scuola, il padre cerca un modo di espiare la sua colpa e di trovare escamotage per far provare piacere al figlio sempre più provato psicologicamente dal deficit. Dopo aver partecipato ad uno stupro di gruppo ai danni dell’amante del padre, stupro che da parte sua sarà solo simulato, dato che ormai è privo dell’organo del piacere , si innamora di quest’ultima.
Il padre intanto esamina su internet le possibilità di un trapianto di pene o anche le vie alternative per provare piacere e scopre che è possibile raggiungere l’orgasmo autoledendosi il corpo. Il ragazzo accetta il consiglio del padre, ma dopo ogni culmine di piacere i dolori saranno sempre più insostenibili. Complice di questa pratica erotica sarà anche la giovane amante del padre, che lo amerà conficandogli coltelli nella schiena finchè il padre non gli comunicherà che il trapianto di pene è possibile. Il ragazzo aiutato dall’amante del padre, evira uno degli stupratori di lei , ma nella collutazione il pene finisce spiaccicato sotto un camion. Situazione che ha portato alla più profonda ilarità da parte dei vari recensori, ma che a nostro avviso è una scena grandiosa che spazia dalla disperazione all’horror ed alla tenerezza, perchè in questa situazione la disperazione provata dall’evirato e dal ragazzo a cui verrà trapiantato il pene sono all’unisono nel vedere persa la possibilità di tornare a vivere la normalità. Alla fine sarà proprio il padre devastato dal senso di colpa ad essere il donatore del pene al figlio e quando finalmente il ragazzo tornerà ad avere la fatidica erezione, scopre che può averla solo con sua madre.
In un tam tam di follia e nero disagio psicologico , in cui neanche Buddha può nulla, il dramma arriva alle estreme conseguenze.
Un film maledetto e bestiale che non priva lo spettatore di nulla, parole a parte : disgusto, shock, risate, tenerezza, indignazione lo pervadono, il tutto solo immagini e niente dialoghi , ad enfatizzare ancora di più la rarefazione reale che domina spesso i rapporti interfamigliari, e a rafforzare il concetto che il significato drammaturgico di un’opera d’arte è anche e soprattutto l’immagine . Il film, fallo-centrico solo in apparenza , è un’opera in realtà morale. Se consideriamo che il Buddha disse che nel mondo vi è una generale infelicità proprio per la stessa natura del nostro esistere come esseri temporali, presi spesso da insoddisfazione, perché abbiamo la bramosia per ciò a cui ci attacchiamo e che i concetti di non-attaccamento funzionano solo se c’è anche il pari rispetto di un non-rifiuto, ecco che si può concludere che la ‘Via-di-Mezzo’ richiede entrambi gli aspetti per mantenere l’equilibrio, perduta la quale ogni situazione limite è possibile. In questo film strabordante e border-line incontriamo la sfumatura inedita che il pene è uno e trino con amore e dolore, uno e trino con sessualità e vita ed in questa combinazione di estremi, esagerare si può, è lecito e si deve, soprattutto a cinema. Per fortuna c’è Kim Ki Duc.