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Moet : un racconto di Giorgio Brunelli

Creato il 05 agosto 2012 da Wsf

Moet : un racconto di Giorgio Brunelli

In completo e jabot misi in prima la Triumph e, dopo un giro di ruota, mi accorsi di un coccio di vetro inspiegabilmente conficcatosi nella mescola anteriore della Metzeler. Mi congedai dalla sella biascicando una malvagia compieta e, ansimante, raggiunsi a piedi la piazza.

Una volta che vi fui giunto, cianotico, ficcai rabbioso le corna sopra la lingua e fischiai al giovine Dennis. Se ne stava accovacciato sullo scheletrito liberty di un souvenir di panchina, intento a rollarsi una presa di Drum mischiata ad ingerenze fortemente psichedeliche. Intimandogli perentoriamente uno strappo, montai sul sellino monoposto del suo Zip da competizione.

Rara avis, il provetto pilota era verosimigliante al “46”, sua venerata Divinità. In poco meno di un quarto d’ora, dopo un nightmare di novantanove allucinanti chilometri macinati con pieghe perigliose, vertiginose impennate e diserzioni obbligate nei campi al fine di eludere l’evenienza di un posto di blocco, mi domiciliò compiaciuto, alle 22 in punto, sul luogo deputato del reading. Lo ringraziai regalandogli una Marlboro e in un battibaleno, monocolo alla mano, lo vidi già rincasato e diligentemente chino sul sussidiario di Beyoncé.

Al reading ero stato invitato da Orazio, il proprietario magnaccia di un night club dall’assonometria fatiscente, che ebbe l’audacia di vidimare in modo nominale, presso la camera di commercio del suo comune d’appartenenza, con un’intestazione vagamente naif : “Choose Meat”. Quella ricevitoria low profile per peccatucci veniali, inserita in uno St. Pauli nostrale, era strategicamente ubicata in una triangolazione geografica godereccia sotto il livello del mare, dissimulata nella nebbiosa pianura padana e in ogni caso difficilmente ravvisabile anche dai rabdomanti tom-tom installati sulle Alfa delle Forze dell’Ordine.

Orazio lo avevo conosciuto in uno sfaccendato equinozio d’autunno assieme alla sua baldracca cino-keniota di turno, tale Regina: si trattava di un viaggio premio di tre ore alle foci del Po, sponsorizzato per otto persone dalla Raminax S.p.A., una fantomatica ditta individuale di stoviglie e posate. I fortunati prescelti fra cui mi ero imbucato, oltre a ricevere in omaggio una confezione sottovuoto di ravioli agli spinaci di Giovanni Rana, un cartone da un litro di Tavernello ed una confezione surgelata di sovracoscia di pollo di Francesco Amadori, avrebbero dovuto confermare al National Geographic la veridicità sull’esistenza, in quelle acque larghe, turpi e lutulente, dei temibili pesci Siluro.

Effettivamente, nel cabotaggio pluviale, ne avvistammo una coppia davvero terrificante, mastodontica al pari delle orche assassine. Noi tutti paventammo che quelle due sagome modellate a supposta di nitroglicerina avrebbero potuto balzare oltre il parapetto del natante, per poi crudelmente silurarci.

Fortunatamente fra noi vagliati eletti, presenziavano anche due wrestlers nigga del Burkina Faso dai mostruosi deltoidi. Ben acclimatati nel nostro esiguo gruppetto e come noi atterriti da cotanta aberrante ittiologia, essi, stranamente investiti da un’acuta genialata, gettarono nell’acqua putrida e dolce con algida nonchalance una coppia di svizzeri gay in luna di miele d’acacia. Nello stesso istante i due ittiosauri da una tonnellata ciascuno si elevarono magistralmente con ascensione a iperbole e, spalancando famelici i dentati oblò, se li ciucciarono al volo degustandoseli poi nel letto del fiume come due Morositas. Nemmeno il tempo di godere del loro rantolio, che sul faccino di noi tutti ritornò finalmente lo smile, per poi tornare ognuno alla vita di sempre a reportage concluso.

Orazio, dopo quel nostro fortunoso incontro, si trovava in trasferta di lavoro a Minsk per trattare un turnover ben cernito di bagasce con un altro buyer della sua risma. Ebbe tempo e modo di leggere le mie invenzioni pseudo letterarie, seguendo la scia di indirizzi virtuali underground anarco-insurrezionalisti e altri URL meno ideologici e, diciamolo pure, smaccatamente ficaioli. Lesse via web con accigliato interesse una mia summa di limericks & calembour, raccolti in opera omnia e virtualmente rilegati in brossura fresata; io gli ero eterno debitore per quella sua fortuita lettura, e soprattutto per il futuro ingaggio concordato nottetempo.

I files dissennati erano robaccia quasi tutta illeggibile, con forti riecheggi erotico-sessuali, e tutt’al più un re-mix follemente composito che spaziava ad ampio raggio fra citazionismi di una intramontabile letteratura contemporanea e contaminazioni storico artistiche surreal-dadaiste.

Addebitandomi il costo della chiamata mi telefonò al cellulare, spronandomi a declamare qualcosa alle sue impiegate da night al termine del loro live-show di mezzanotte, cui seguiva la consueta sfarzosa cena a base di risotto allo champagne e foglie d’oro a ventiquattro carati.

Egli, a parte l’esser conscio di commettere una qualsivoglia forma di reato d’aggiotaggio, riteneva che quella proficua masnada di lap-dancers di sua pertinenza fosse – oltremisura – troppo scarsamente acculturata per esser in busta paga nel suo rinomato locale pay-sex. Egli era affetto da un patologico complesso del Grandioso, per il qual disturbo esigeva da loro, oltre all’incommensurabile bellezza e ad una impudente puttanaggine, anche un ancheggiare (fra la kermesse rozza e smargiassa) che fosse armato d’allure colto e raffinato.

Solennemente e ‘in repeat’, egli amava sussurrarmi nel timpano svagato: ”Oh, ricordati che la cultura alla fin fine paga sempre!”. Notando al parcheggio del night il suo fiammante Lamborghini da tre centoni, non stentai a credergli. Era assurto a novello Jorge Luis Borges, grazie ai meritocratici orifizi innatamente posizionati nei succulenti baricentri delle sue spumeggianti sciantose.

M’invitò a bere qualcosa alla mezzaluna del bar, schifosamente kitsch, che sprigionava effluvi di sesso persino dai poggia bicchieri cartonpressati della Becks. Parlamentammo alcuni secondi riguardo al mio cachet: con sincinesie alla Ray Charles lo frazionò in modo consistente, infilandomi un foglio da venti avvolto su stesso a cono appuntito, forandomi l’ occhiello prima occluso del revers della giacca.

Lui ordinò al suo barman acrobatico filippino tirato in livrea un Mojito, poiché, asseriva elegiaco, gli ricordava terribilmente il soggiorno cubano di Hemingway. Touché, io, di gran lunga meno letterato, ordinai una “cavallina lettone” al seltz di almeno centosettanta al garrese, accompagnata da un artico tumbler di Buck’s Fizz. Non mi arrivò alcuna giumenta ed Orazio, da sempre fan sfegatato dei Maudits, ordinò per me, una zolletta con un calice tiepido di assenzio. In ogni caso adoravo pronunciare e scandire “b a c s f i z”: in qualsiasi pub, ipermercato, sfasciacarrozze o in un qualsiasi altro cazzo di posto mi trovassi. Esordivo sempre con quell’intrigante pronuncia suadente che faceva tanto mitteleuropeo parecchio istruito nonché socialmente integrato. Buttai giù il nettare dei poeti alla stregua di una tequila bumbum.

In trance di botto, pensai angustiato al recente penoso congedo sentimentale di Giulia, un rapporto strascicato e ormai logoro: si era accomiatata solo dopo tre settimane di ménage para-platonico a causa di un messaggio osceno inviatomi da una tipa schizofrenica di Venezia, da lei captato sottecchi sul mio cellulare opportunamente non raggiungibile ad libitum. Ok. Seduto su questi pensieri e sul purpureo sgabello, rumoreggiando con la cannuccia a circolo nell’ultima goccia di Buck’s, mi avvidi di una splendida figura muliebre e ivi follemente m’innamorai.

Mi si avvicinò sculettante e scansionai rapidamente un giunco da uno e ottanta in blue-jeans paillettati e lineamenti del viso tardo-romantici. Evinsi, dal prosieguo della tomografia assiale, che dalla camicetta setaiola le smottava una quarta di buon silicone last generation e in plusvalore ostentava al mondo, statuaria, l’archetipo Leonardesco del Derrière. Era strepitosa e pensai al paradosso che in fondo anche le care meretrici fossero umana merceologia drammaticamente innamorabile. In nuce, pensai amareggiato, che se non fossi nato normo-maschio come tanti ma strafica come poche, sicuramente avrei declinato l’obbligo al lavoro. Avrei mandato a farsi fottere la dedizione all’Arte con i suoi subdoli surrogati e mi sarei scientemente bardata, al fine di agguantare uno sciocco miliardario sessualmente in parabola discendente (anzi già disceso), nostalgico amante di quell’estetica manierista scioccamente patinata. Pertanto iniziai a giustificare, allineato a destra, tutto quel coacervo da macellazione di attricette, modelle, starlettes, show-girls, soubrettes, gettoniere, puttanelle e quant’altro di stucchevolmente riprovevole imperversa nel fasullo sfavillio del mondo mediatico e in altri mondi parimenti immondi. Sulla mezzanotte, mi gustai il live-show assaporandomi uno di quei piatti di chicchi a 24 carati, dopodiché mi avviai verso l’Agorà allestito per il reading.

Orazio in persona afferrò il microfono wireless del karaoke e presentò enfaticamente al pubblico la mia bizzarra figura d’artista isolato e demente. Ipse dixit, imparruccato e con spiccato idioma lombardo-veneto, esordì: ”Oh muti gente! Qua c’è uno che ci dice!”.

Le luci si soffusero gradualmente e il silenzio s’ovattò ferale. Dalle tavole del proscenio fuoriuscirono fumi di ghiaccio mentre un cono di luce bianca e fredda illuminava grevemente la mia eretta figura. Edulcorai la tensione dell’ouverture sverginando subito “Starlette”. Un s(u)onetto che scrissi e dedicai a tutto quell’inutile bailamme di  ficame televisivo che impunemente impera ed ammorba l’etica da ogni antenna dell’universo.

Oh Starlette che vuoi tivù,

ma ci pensi  alla trafila

con cui dovrai sudar di figa?

L’ elettricista in studio sette

vuol succhiar le tue gran tette.

Esso stesso detto e fatto

gentil cortese archivia il fatto.

 Il macchinista romano e bello:

e mo’ starle’ te fo’ un macello!

E al macchinista assai infoiato

a pecorina togli il fiato.

Dolorante e nervi a pelle

Ma sì suvvia, altre cappelle!

Il regista è quello basso

orsù Starlette..

dai benza al cazzo!

Fatto il pieno al serbatoio

lui ti tromba con decoro.

Dai ti prego non mollare

siamo prossime al canale.

Con la tua mente da fighetta

il dottore te la umetta.

Ma il dottorino ha gusti strani

ma tu prona te lo chiavi.

Ma stoicamente con bruciore

ora punti con fervore! 

Il mezzobusto assai rapace

ti chiede breve, sei capace?

E tu ferita nell’orgoglio

ti smutandi col portfolio.

Quel mezzobusto

assai arrapato

te lo ficca con afflato.

A rete 4 manca un passo,

oh mio dio ma che sconquasso!

Ora sai dal tuo sentore

che ora tocca al Direttore.

Nella  stanza di potere

a novanta vuol godere!

Tu proponi un gran pompino

ma lui pretende il sederino.

Tu gli dici, ma perché?

Ma poi cedi molto osè.

Ora  spot decanti tu

lontan i ricordi di quegli Hatù.

E  tutti fuori con la Bic,

vogliam sul foglio la tua griffe.

E tutta rotta ed emaciata

Oh Starlette…

sei arrivata.

 

Ogni bon vivant, incluso Nestore, l’alano merle di Orazio, per cinque minuti filati applaudirono fino allo scoperchiamento degli scafoidi.  Notando gasato un gran via via dal cesso unisex, capii che li resi pure incontinenti. Poi, iniziai a declamare da chansonnier alcune micro riflessioni dedicate a tutte quelle donne ferenti per le quali, nel mio resiliente girone infernale affettivo, ad ogni rinnovato congedo, mi ero sempre postumamente spennellato sull’anima massicci containers di mercurio cromo. Il tripudio fra i divanetti si tradusse in una sentita standing ovation, tanto che, mio malgrado, dovetti bissare parecchie prose. Una di esse, ”Vita”: “Oh cara, senza di te la vita…cosa vuoi cheti dica? Ora sa tanto di fica!” fu eletta a tormentone della serata e tutti quei grufolanti verri, con il giro giallo opacizzato all’anulare, la recitarono non-stop per tutta la notte alle loro smaglianti femmine pre-pagate. Ottenendo il medesimo consenso di critica ne seguirono un’altra dozzina della medesima cifra stilistica. Possedevo il dominio dell’intero parterre, soprattutto quella nicchia a cui più bramavo, ovvero tutto quel nucleo di femmine ozonosferiche che per il sottoscritto, in quel momento, si sarebbero collettivamente suicidate nelle più singolari attuazioni. Dopo quelle letture puramente stilnoviste, esiliai verso letture più licenziosamente filosofiche.

Quelle pagine racchiudevano poesiole istintuali fuoriclasse, in realtà inani esercizi karmici di vuoto mentale, volutamente redatti sul water ad occhi bendati, impugnando la piuma d’oca col pollice ed il mignolo della mano sinistra e pensando a tutt’altra cosa all’infuori dello scrivere. Nondimeno, era da considerarsi degna di menzione la musicalità dei testi. Lessi il poi-metto, “Amalia”, una donna che riuscì a farmi parecchia bua all’anima.

Ci è il Sun di fuori.  

Il vento è stato…uishhh via

dal vento di dopo.

Io qui o là non so

se pensarti o non…

PERO’ MEGLIO NON.

Frattanto basito io

ciuccio il pistacchio

da un cono e… 

mi pare gelato!

Ohhh…ma come mi hai ridotto

mia piccola Amalia!

Mi difettano i colori accesi

delle tue lolite manteaux

e la tua stolta crapa

al sabor di cedro birmano.

Non so quel che farò sai!?

Magari le mesh cobalto

cantandomi besamemucio.

 

Terminato il salmodiare della seconda performance, in platea aleggiò un silenzio artificioso. Forse quel parterre avulso da barbose teorie ermeneutiche, ed ebbi ragion di credere anche di altre teorie, si sentì peraltro un attimo gabbata da cotanta mia assurda ed astratta logorrea. In fondo le mie liriche “a braccio” altro non erano che polluzioni patafisiche e non, di un apolide al Polo. Non le consideravo altro che reflussi di dabbenaggini mordenti e dementi, decontestualizzate in invalicabili strutture cognitive. Eppur ugualmente puntuale arrivò l’esaltante agnizione.

Una fracca d’astanti si strapparono il toupet gettandolo in mezzo alla pista ed altri, in preda a ridanciane convulsioni, chiazzarono con atolli di piscio la patta delle luccicanti brache dei Versace da boutique. Dato quel riscontro così accalorato, omaggiai quel folkloristico gruppo con un ultimo struggente pezzo: un sofferto sonetto autobiografico, scritto all’andata, sul sellino di Dennis, mentre ad ascissa tagliava in derapata un campo di cachi. A fine lettura capii perfettamente che come me, anche loro, non avevano capito un nonnulla, tuttavia registrai compiaciuto un’ulteriore esaltante apoteosi.

Transennato mi avviai al bar. Notai di nuovo quella mia tirante in jeans appena smontata da un turno in privé con un trilionario dei culatelli parmensi. Mi venne incontro e l’ebbi in prospetto, mi devolvette alla vista una lussuriosa fenditura scapolare, compassatamente si aprì un varco fra le sinapsi delle mie cosce e mi appoggiò sull’astuccio penico quella deliziosa compiutezza di glutei così tondi, così tonici, così insomma tutto quanto di tutto. E col viso a me rivolto a tre quarti, esordì con un sensualissimo e scuro: “ccciaogggioia sssono JJJesssica”.

Trasecolato le cinsi la vita con un braccio e l’altro lo armeggiai, con gesto plateale zotico e rotante, per ordinare al funambolo dello shaker due flûte del miglior Champa della Maison. Intanto Orazio, scorgendo casualmente la sequenza del nostro mutuo iter seduttivo, si prodigava nell’inviarmi commoventi marconigrammi resi con inconsueti moti corporei e preoccupanti tic oculari. Pensai, inorgoglito, che il mio reading era senza dubbio riuscito a rafforzare inderogabilmente la nostra quinquennale amicizia, nata ai tempi remoti del nostro concorso di colpa per il duplice omicidio preterintenzionale del Po.

Proposi a Jessica di abdicare dallo sgabello, al fine di un romantico looping all’interno dell’agognato privé. Ci immaginai già ebbri e lascivi, adagiati sopra uno di quei divanetti di iuta a cronometro. Pertanto le strinsi la sottile e curata mano a nail art, dirigendoci verso la promettente seduta.

Le raccontai, tra un rabbocco e l’altro di Moet, servito dal maître ogni venti minuti spaccati, del mio tanto essere e del mio zero avere. Mi dilungai in un autoritratto, deliberatamente bohémienne, sulla mia vita d’artista, con tutte le difficoltà di ordine pratico ad esse connesse e soprattutto sconnesse. Ma ciò che conclamò l’intrico repentino fu una mia ieratica acclamazione: “Jeans-Eleganti-Stanno-Seduti-Invocando-Cazzo-Abile”; acrostico formulato all’istante ed a lei dedicato.

Lei, astringendo le cosce, rise sguaiatamente e tutt’ intorno un’ invisibile claque di maschi, intenti a tener fermi i rossetti professionali sulle loro taglie extra-large abbassate sulle ginocchia, palesarono come Jessy, un sincero e deificante plauso. Fra un piccante struscio e l’altro, chiesi a Jessica quale mai fosse la sua attendibile età ed ella mi rispose stranita: “Ventotto!”. Sorpreso la sollecitai scherzosamente a mostrarmi un documento di riconoscimento.

Lo tolse imbarazzata dal push-up, sito più convenientemente agevole per l’esibizione dello stesso ad eventuali improvvisati blitz della Pula, me lo porse e rimasi impietrito. La mia Jessica era all’anagrafe Michele Esposito, nato a Capodimonte, anni trentacinque, professione architetto. Si accorse del mio glaciale stupore e mi tranquillizzò verbalizzandomi che si era tramutato ufficialmente in Sottana sei mesi prima, grazie alle chirurgiche mannaie operatorie di Casablanca; amaramente decodificai l’increscioso alfabeto Morse d’Orazio.

Ma sì, tanto il mio amore era alta, bella, sensuale, colta, elegante e gratuitamente fruibile. Già trasognavo di noi a zonzo per il paesello, tra lo schiattare d’invidia di tutti quei conoscenti incatenati a vere femmine di nascita, ma trasmutatesi poi in obbrobri a concluso menarca. Incollate a loro come vischiose sanguisughe, sempre adirate per via di un percorso coniugale tradotto in laceranti addendi d’anni strascicati con interminabili reciproche reprimenda.

Jessica ed io brindammo al nostro cristallino intrigo, al tocco dei due perlage di un Veuve Cliquot. Acta est fabula, ci alzammo inopinatamente dall’usurata imbottitura in arredo al privé, come i due innamoratini di Peynet. Da Orazio, che scorsi sudatissimo a causa della pelliccia in ocelot che ancora tronfio sfoggiava, mi feci lanciare il telecomando del bolide, nel mentre  era sessualmente assorto nel clou colonscopico con una lei di una coppia scambista. Uscimmo al parcheggio, aprii le ali di gabbiano in carbonio, ci adagiammo ribaltando opportunamente il sedile e volammo come due flamingo in amore, fino allo spegnersi dei lampioni arancioni del night.

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Giorgio Brunelli. Al mondo dal 1962. Terminata l’Accademia di Belle Arti, nel 1987, apre a Verona un laboratorio orafo. Nel 2005 la Grande Crisi lo costringe ad abbassare le saracinesche dello stesso. Inizia quell’anno il suo sposalizio con le occupazioni saltuarie. Di natura esteta, modella e dipinge  e, da non scrittore, al favor delle suggestioni delle tenebre, scrive qualsiasi cosa gli si ficchi nella testa. Si definisce misantropo e se ne compiace; carattere scabro non conforme ai modelli convenzionali. Non perdona nulla, non si perdona nulla. Ora è vivo e gli basta esserlo; vive. Non pensa al domani come non pensa all’oggi; men che meno a ieri. E ogni pagina di vita che volta, in fondo è una pagina che già ha voltato il giorno precedente. E’ redatore del blog : www.neobar.wordpress.com. Altre sue opere, all’indirizzo: http://www.millepagine.net/saggi/filosofia/de-sprofondis/


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