Molly.
Un’idea che strizza un occhio all’inglese (nome di donna, più che altro diminutivo) e l’altro all’italiano (l’aggettivo “molli”). Avendo entrambi gli occhi chiusi per strizzarli in direzione di ceppi linguistici a caso, quest’idea non può leggere, e di conseguenza non può sapere, che in slang nordamericano “Molly” vuol dire ecstasy, in capsule.
Il che, voi capirete, fa spanzanare dalle risate, se pensiamo che il prodotto in questione è l’ibuprofene in “capsule molli”.
Del tutto ignari del facile e poco edificante equivoco, i creatori dello spot hanno deciso che era il momento di preparare la solita scenetta, seguendo le regole d’oro del pubblicitario:
1. Personaggi sgradevoli
2. Frase antipatica e ripetitiva che faccia ricordare il prodotto in un turbinio d’odio («costa meno del jingle!» occhiolino in direzione del cliente. Risate)
3. Un’altra scenetta, possibilmente più stupida ancora.
Effettivamente, purtroppo per noi, gli elementi li avevano tutti. Vediamoli insieme.
Scenetta I - Molly a Roma.
Un tizio si fionda addosso a una ragazza, dimostrando un entusiasmo da arte drammatica che mi fa pensare di essere al cospetto di un diplomato cum laude dell’Accademia degli Uomini Sandwich.
La destinataria di questo slancio d’affetto non gli dice neanche ciao. Ora, io direi che la situazione è chiara: l’ha visto da lontano e ha pensato una cosa del tipo mannaggia, m’ha trovato, credevo di averlo seminato, cose così. Poi però lui s’è avvicinato, le ha chiesto cosa succedesse… Allora Molly s’è presa di pena e gli ha detto che ha mal di testa, per non ferire i suoi sentimenti.
Segue conversazione in neandertaliano classico, in cui lei dice “mal di testa” in due idiomi confusi e lui le risponde «no problem!» con quell’allegria irritante che ci fa capire come mai nel vederlo a uno gli arrivi il mal di testa.
Ve la faccio breve perché siamo alla frutta della deficienza. Lui prende le capsule dal portaoggetti della Vespa e gliele sventola davanti in tutti i formati blaterando di intensità del dolore, lei finge di ascoltarlo mentre si maledice di esistere tra polsi ritorti e sospiri interiori, lui insiste che le capsule sono «molli!», come se in effetti la cosa potesse avere una qualche attrattiva comica, e accentua il concetto creando un siparietto con le due scatole, dal retro del quale sbuca in una specie di bubusettete dell’antidolorifico che proprio non saprei.
Dopo aver ingollato sulla fiducia una manciata di capsule di chissà cosa, Molly ha perso i freni inibitori: ride come una pazza sul motorino, che a questo punto deve sembrarle un razzo spaziale sparaconfetti, indica i pannelli pubblicitari convinta che rechino messaggi per lei e si lascia trasportare con preoccupante senso dell’avventura dal ragazzo sospettosamente allegro, mentre la voce fuori campo mette in allerta sui classici effetti collaterali anche gravi.
Non c’era bisogno, avevamo intuito.
Scenetta II – Molly da Mario
Bellissimo ed innovativo incipit: si prende una donna anglosassone e la si fa girare in motoretta per la Capitale.
Io sono un criticone, ma qui devo alzare il bicchiere e applaudire (dopo aver posato il bicchiere, credo) a qualcosa di nuovo ed originale.
Diamo a Cesare quel che è di Cesare, dunque (cioè una fracca di pugnalate che tutti si aspettavano) e torniamo a noi.
Ovviamente l’uomo, che scopriamo chiamarsi Mario, si è portato Molly a casa.
Siamo arrivati, Molly!
grida il maledetto – ma come si spegne?!
Esprimendo tutta l’ammirazione del topolino di campagna, Molly comincia subito a lanciare i propri effetti personali a destra e a manca in un appartamento con una vista meravigliosa, ma così meravigliosa che uno quasi non fa caso a elementi d’orrore come il tavolino di vetro con le ruote del carrello per la spesa e la bici piantata in soggiorno.
Ma ecco un tizio (sgradevole, regola numero uno!) piombare in casa al solo scopo di comunicare che ha un terribile mal di testa.
Mal di testa? Molly!
Si intromette subito la ragazza. E io non capisco perché debba parlare così, come una mentecatta, come se ricordasse solo il suo nome. La versione terrestre di Dory di Alla Ricerca di Nemo.
Spiega che se hai male prendi la capsula da una scatola, se hai malissimo dall’altra. Oppure, dico io, ne prendi due dalla prima scatola, se la differenza è il dosaggio. Ma la differenza non è il dosaggio, è che devono vendertele tutte e due.
Segue assai opportuna la spiegazione in blu, in cui ci insegnano a deglutire (grazie a una cosa che si chiama tecnologia liquida; io la chiamo voglia di lanciarvi qualcosa di solido.)
Ed è qui che la situazione precipita.
Precipita perché, nel frattempo che noi imparavamo a inghiottire, potrebbe essere passato chissà quanto. Infatti, mentre i tre sono seduti in grande agio reciproco, il tizio in felpa rossa ringrazia Molly e io non voglio sapere di cosa, visto che lo fa mentre si tira su la zip. E lo voglio sapere ancora meno, visto che Mario, in un raro momento di cavalleria, fa apprezzamenti trasversali sulla poco perspicace giovane:
carina, eh Molly?
L’altro pensa bene di rispondere con
Capsule!
E qui, se tendete l’orecchio, sentirete le campane dell’umorismo intelligente suonare a morto, mentre Molly, inutile, duttile creatura, si sente tutta accattivata da queste cortesie e si ripete capsule, capsule, capsule, perennemente assediata da Mario che non si fa sfuggire l’ennesima occasione di allungare le mani.
Adesso sì che ho mal di testa.