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La diatriba se è meglio il libro oppure il film da cui è tratto è sempre attuale e per esperienza ammetto che non ho mai riscontrato fra tutti i film visti uno migliore del libro da cui è tratto. Il discorso vale anche per questo “Molto forte, incredibilmente vicino” film che pure ha un suo interesse ma certamente non paragonabile al testo di Jonathan Safran Foer che è ritenuto uno dei migliori romanzi americani sulla tragedia del 11 settembre. Era difficile poter trasferire in immagini le oltre 350 pagine del testo scritto e il regista Stephen Daldry insieme allo sceneggiatore Eric Roth hanno necessariamente dovuto fare una selezione facendo coincidere il film con la storia del giovane protagonista (il giovane attore Thomas Horn che regge con bravura l’intero film).
Comunque sia mi pare interessante seguire la storia, non foss’altro per comprendere il dramma e le conseguenze relative che l’accadimento (definito “il giorno più brutto”) ha prodotto in tutti gli americani. In lontananza molto probabilmente non si riesce a capire quello che l’11 settembre è stato e ben vengano opere come queste che illuminano un po’ di più il nostro sapere.
È passato del tempo dal "giorno piu brutto", ma Oskar Schell non si dà pace. Suo padre lo ha lasciato con una missione incompiuta, con molte domande e una sola certezza: non deve smettere di cercare. Quando, nell'armadio del genitore, trova una chiave e un nome, Black, Oskar trova con essa anche la spinta e l'alibi che gli mancavano. Incontrare tutti i 472 Black di New York City per testare le loro serrature diventa per il bambino un modo di coltivare il sogno che quella chiave possa schiudergli un ultimo messaggio del padre e una maniera di scappare ancora il più a lungo possibile dall'evidenza. "Cosa ti manca di piu di lui?", chiede Oskar alla madre. "La sua voce", risponde lei. E anche a lui mancano più che mai le parole del padre, vere e proprie istruzioni per l'uso della vita, e non a caso è ad un nome che si aggrappa e sempre non a caso è a un'occasione di dialogo persa per sempre che non si rassegna. E poi c'e l'inquilino, per il quale le parole ad alta voce non si possono più pronunciare, non dopo quello che è accaduto a Dresda, ma al quale la scrittura consente comunque di continuare a vivere”.
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