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Il libro di Safran Foer (che non riesco a leggere per motivi personali (sono molto scosso ancora oggi e sono molto legato a New York)) racconta di tutto questo tramite una metafora. Oskar è un bambino vivace e intelligente seppur pieno di complessi, molto legato al padre che lo coinvolge in ricerche affascinanti e giochi di parole, enigmi. Purtroppo perderà il genitore nel tragico attentato al World Trade Center. Dopo un anno di dolore, per caso ritrova una chiave, nascosta in un vaso. Una chiave semplice, senza etichette, nomi, segni particolari. E' contenuta in una piccola busta, con un nome, Black. Oskar, che già prima veniva spronato dal padre a conoscere le persone, a parlare, a vincere le proprie paure, inizia la ricerca metodica di chi sia questo Black. Crea una lista di tutti i Black di New York, in tutti i 5 distretti. 470 nomi, 216 abitazioni, 104 zone. Ogni sabato parte alla ricerca, tre per volta, per molti mesi.
Ma gli estranei e la comunicazione interpersonale non sono gli unici problemi di Oskar. Le sirene delle ambulenze, i forti rumori, gli aerei e qualsiasi cosa che vola, la metro, i ponti, i mezzi pubblici, i telefoni che squillano, le persone che urlano, gli ascensori, gli edifici alti, lo impietriscono. Tutti ricordano quella giornata, quella tragedia, quella perdita. E come può muoversi nella enorme città americana senza dover affrontare quasi tutte queste cose? E così nonostante sia morto da un anno, suo padre, lo sta aiutando ancora a fargli vincere tutte le paure, compresa quella di andare su una semplice altalena. Percorrerà ponti, salirà ascensori, prenderà la metro.
Un aiuto inaspettato verrà da una persona, un anziano affitturario della nonna di Oskar, muto in seguito a un trauma. Il vecchio, avrà bisogno di mezzi pubblici, incapace di camminare a lungo nelle lunghe ricerche in cui si è offerto di dare una mano.
A questo punto, la chiave non ha nessuna importanza, e il ricordo del padre (quegli 8 minuti che rimangono) è vivo più che mai e non più doloroso.
Un film forte, su un dramma ancora fresco e comune, che colpisce duro senza troppe difficoltà ma senza per questo cercare delle facili lacrime. Gioca a carte scoperte, il suo intento è facile da capire, eppure nonostante questo, riesce a commuovere, e questo è un grande pregio. Il tono leggero, dato dai personaggi e dai dialoghi della prima parte, rende il boccone meno amaro di quello che può sembrare. Dei tre atti canonici, il più leggero è quello centrale, quasi spensierato, un viaggio nella favolosa New York e i suoi abitanti. Il resto, l'inizio e la fine, sono dei pugni ben assestati e il dolore e l'efficacia dipendono solo dalla vittima. Quarta regia per Daldry e quarto ottimo risultato.
Voto 7
Extra extra: Il Monco è stato sul set di codesto film, ma non lo vedrete.
Il Monco.
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