A quante insidie si va incontro quando si decide di portare sul grande schermo un libro di successo? Folgorazione editoriale degli anni Duemila, campione di copie vendute e di lacrime versate in tutto il mondo, trampolino di lancio per il suo autore Jonathan Safran Foer, da allora acclamato come una delle penne più talentuose della generazione X, Molto forte incredibilmente vicino si distingue nel labirinto di volumi della letteratura mondiale per essere, e scusate se è poco, uno dei romanzi preferiti dalla sottoscritta. Considerate le premesse, il povero Stephen Daldry, regista temerario oltre ogni logica, con alle spalle una filmografia tutt'altro che minore (Billy Elliott, The hours, The reader) non è purtroppo riuscito a scansare il pericolo di deludere chi ha amato il best seller, né è sfuggito alla classica maledizione del “sacrilego che non sei altro, come hai potuto rovinare un libro così bello”. Riassumo la trama per chi avesse mancato l'appuntamento in libreria. Oskar Schell, bambino dal cervello prodigioso e dalle molteplici pratiche autistiche, perde l'adorato padre (Tom Hanks) nell'attentato alle Twin Towers. La scoperta di una chiave misteriosa e il sospetto che il nome che questa reca, Black, possa avere a che fare con il genitore scomparso, lo spingono ad una lunga ricerca su e giù per i quartieri della Grande Mela, accompagnato nel cammino dall'anziano inquilino di sua nonna (Max von Sydow), silente Virgilio dal passato specularmente doloroso. La storia ricalca abbastanza pedissequamente le tappe del mitico 'Viaggio dell'eroe' descritto da Campbell e adattato da Vogler ad uso e consumo della critica cinematografica: a seguito della rottura di un equilibrio, in questo caso emotivo e familiare, il protagonista intraprende un viaggio disseminato di soglie/avventure (superare il ponte, parlare con uno sconosciuto, prendere la metropolitana), alla ricerca di una verità per lo più interiore. Coadiuvato da un aiutante, l'eroe affronta infine la prova delle prove, per la quale guadagna una ricompensa (il messaggio nascosto dal padre), e ritrova così la sua pace personale (l'epilogo sull'altalena, emblema di una leggerezza riacquistata e di un'infanzia da vivere finalmente in pienezza).
Thomas Horn e Max von Sydow
Sandra Bullock
Una scelta opinabile anche perchè preclude al regista britannico l'accesso ad alcune scene madri, presenti nell'opera letteraria, che sembrano apparecchiate appositamente per esser servite alla mensa del cinema: l'amore tra Anna e l'inquilino, o lui ormai barricato in un ostinato silenzio, immobile nella vasca da bagno, con l'inchiostro delle parole scritte dappertutto sul corpo che rotola giù in mille rivoli d'acqua, come a rigare di lacrime nere la pelle nuda. Poi l'incontro struggente, anni dopo il furore della guerra, con la nonna di Oskar. Il dialogo di carta, e come la carta fragilissimo, di due solitudini che per tornare a vivere si aggrappano alla consolazione di un taccuino, cui affidare domande e risposte senza più voce. Tutto questo manca nel film, è vero. Ma tra le decisioni da rimproverare al cineasta, la più grave è paradossalmente quella di non avere avuto il coraggio di tagliare il cordone ombelicale con il suo ingombrante originale. La cieca volontà di restare fedele al libro ha fatto smarrire a Daldry la specificità della grammatica filmica rispetto a quello letteraria. Laddove Liev Schreiber, con la versione cinematografica di Ogni cosa è illuminata, era riuscito a destreggiarsi nelle capriole linguistiche e narrative del giovane Foer, qui si inciampa a furia di voler tenere il passo con la straripante effervescenza del logorroico Oskar, che non la smette di commentare, di inventare, di pensare, tentando disperatamente di riempire con un fiume di parole il silenzio assordante ("ossimoro!" urlerebbe il geniale personaggio) del dolore e del lutto, impossibili da pronunciare, come sa bene l'inquilino. Nel romanzo, la verve retorica di Oskar non conosce misura, la sua lingua è talmente potente da sciogliere i lacci delle convenzioni discorsive, traboccando in inaspettati giochi tipografici, allungandosi fino a brandire impaginazione e apparato iconografico. Ebbene, di questo tumultuoso torrente espressivo la pellicola trattiene solo poche gocce (deliziose le gag della strana coppia Horn-Von Sydow ai danni di scorbutici Mr Black), diluite in una regia tradizionale che più tradizionale non si può.Tom Hanks e Thomas Horn
La poeticità dello stile di Foer rischia di scadere in mera retorica. I rapporti tra i personaggi si deformano in turpe pornografia dei sentimenti. Sembra che Daldry non si renda conto di quanto l'immagine, con la sua forza amplificatrice e la sua carica evocativa ridondante, sia un'arma potente certo, ma assai pericolosa. Quando il tessuto visivo, reso pleonastico, si riduce ad orpello del linguaggio verbalizzato, si realizza quello snaturamento paventato decenni or sono dai George Valentine detrattori del cinema sonoro. L'insistenza da cronaca televisiva sul crollo delle Torri Gemelle, di gran lunga la tragedia più immortalata della storia, la quasi pruriginosa reificazione del dolore nel suo gesto più patetico e ostentato, il pianto, e l'insensata sottolineatura della voce off di Oskar allo scorrere dei fotogrammi: basta questo perchè, di colpo, spunti lo spettro di un cinema didascalico, che istiga il pubblico all'inerzia interpretativa, imponendogli una lacrimuccia stucchevole e coatta. Un cinema che ci dice tutto, e lo grida forte, incredibilmente vicino, troppo vicino.