Eh si, pare ci sia un elettorato orfano e smarrito del quale fanno parte di sicuro almeno otto milioni di persone: ex-occupati che hanno perso il lavoro, giovani che lo cercano per la prima volta e non lo trovano, donne non più giovanissime, dopo una sosta tra le pareti domestiche, tutti pronti a recedere da aspettative, competenze, orgoglio. Quelli che non rientrano tra i disoccupati, ma tra gli “scoraggiati”, categoria riconosciuta ormai anche dagli esperti di statistica, i tanti cassintegrati, “giuridicamente” occupati ma emotivamente esclusi, quei “lavoratori in mobilità”, che popolano quella geografia indefinita tra un’occupazione persa e una che non avranno più.
Tutti variamente colpiti da questa svolta del sistema che ha prodotto un Welfare per ricchi, nel quale lo Stato mediante formidabili elargizioni di denaro pubblico, si preoccupa di tenere in piedi e di nutrire il sistema finanziario, sicché le classi medio-basse si impoveriscono sempre di più, mentre gli ultra-tenenti possiedono sempre di più. Così una piccolissima minoranza detiene ormai un potere economico spropositato, la classe dominante impera sempre di più, stato e rappresentanze non sono più in grado di mediare come dovrebbe avvenire in democrazia, i governi assoggettati alle elite legiferano per loro sostituendosi ai parlamenti. E i premier generalmente incompetenti, irresoluti, ignoranti, dilettanti, giovani o collaudati che siano, vengono ormai indicati e scelti dall’imperialismo finanziario nelle fila dei possibili sicari della strategia predatoria, intenta a trasferire ricchezze dal basso verso l’alto, ma sottraendo beni e ricchezze comuni, saccheggiando le infrastrutture pubbliche attraverso i processi di privatizzazione, promuovendo modelli di investimento in interventi che fanno circolare denaro all’interno degli stessi circoli, rinnovando speculazione, corruzione, evasione e riciclaggio.
Prima ancora di chiedersi quanto durerà tutto questo, se imploderà e come, magari grazie all’affermarsi in un Paese di una colalizione anti-europea, o per il concatenarsi di spinte centrifughe, o per l’acuirsi di tendenze nazionaliste, regionaliste, con l’inevitabile ascesa di movimenti populisti e neofascisti, a me viene da interrogarmi sul processo di selezione del personale politico che ha condotto quelle elite, obnubilate dall’avidità, senza dubbio, accecate dal rapace istinto all’accumulazione, a scegliere uno come Renzi. E, domanda ancora più ardua, come sia possibile che qualcuno tra quegli otto milioni, come qualcuno tra quelli ancora non del tutto marginali, ma condannato a diventarlo, sia ancora disposta a dare credito alla sua comunicazione, che tuttora viene promossa a modello di marketing politico da osservatori e opinionisti.
Dicono che ieri sia andato per la terza volte dalla D’Urso, ci parevano di più le sue comparsate, ha ragione il Simplicissimus, perché facciamo confusione con tutte le volte che c’era andato il padrone di tutti e due, D’Urso e Renzi, a dire le stesse cose, pronunciare gli stessi slogan, agitare la minaccia dei comunisti, dei disfattisti, dei gufi, sventolare le stesse promesse illusorie come gli elisir degli imbonitori ai mercati paesani. C’è chi dice che la sua cifra vincente sia l’assertività, caratteristica che si sono trasmessi per li rami tiranni e dittatorelli nostrani, berciando dell’impero conquistato, del riscatto del sistema paese e del Made in Italy, di modernità, di cambiamento, di fiducia nel futuro e additando al pubblico ludibrio sempre gli stessi responsabili: comunisti, magistrati, sindacati, pubblico impiego, indicato come detentore di inattaccabili privilegi. E poi la politica, quella degli altri da lui e dalla sua corte: amministratori locali spendaccioni, vecchi burosauri inguaribili, irriducibili avanzi della prima e seconda repubblica tra i quali è arrivato lui a fare un repulisti necessario.
In lui l’incontenibile facoltà di saturare gli spazi, con presenzialismi, dichiarazioni, tweet, lucidi, comunicati, battute salaci, la feroce facoltà di non stare a sentire nessuno all’infuori dei padroni, la implacabile tracotanza di chi non nutre dubbi compreso com’è della missione indiscutibile di proseguire nella sua inarrestabile carriera, sono favorite paradossalmente dalla mancanza di quattrini. Ed è quindi giustificato non intervenire su nulla di decisivo, di strategico. Non ci sono per combattere l’evasione, non ci sono per tutelare il territorio, non ci sono per indagare sulle rendite e i grandi patrimoni e neppure per rintracciare opache transazioni. non ci sono e quindi è preferibile non andare a sfrucugliare chi sta sopra, detentori di ricchezze, lobby, insomma quelli che “lavorano, guadagnano, spendono, pretendono”.
È così che con una mano toglie con l’altra finge di rimettere in tasca quello che toglie. La manovra toglie le mense scolastiche e lui si inventa il bonus per le mamme, dà gli 80 euro ai lavoratori dipendenti e aumenta le tasse anche quelle sui redditi virtuali, leva l’Imu e fa pagare la Tares, toglie diritti ai lavoratori dando in cambio due prodotti taroccati a uso dei giovani: fiducia e speranza. Perfino toglie democrazia nel Paese e offre il contentino di levarla anche dentro a quella formazione magmatica e codarda che lo ha eletto segretario, per trasmettere l’impressione di realizzare quella sua pedagogia punitiva nei confronti della casta. Lui si immedesima, proprio come il presidente operaio, il presidente imprenditore: è di volta in volta il pensionato, la neo mammina, il lavoratore in esubero, ma anche il rappresentante dell’Onu annichilito dal suo inglese. Ma appunto, si immedesima, recita con minor convinzione degli attori che hanno appreso il metodo Stanislavski, finge, è un guitto di avanspettacolo. È proprio ora di fischiarlo.