Sovraeccitazione narrativa quasi isterica e schermo a un quadrato: una dimensione 1:1 invece di un 4:3 o di un 16:9, due barre di nero al lato, dunque, placcando i protagonisti e non dandogli possibilità di repsiro, mai. Grandangolari, volti come fossero fototessere, campi e controcampi e la fotografia di André Turpin, saturatissima: verde, giallo ocra, rosso, dorato, blu elettrico. E poi questo amore edipico, possessivo di una madre e di un figlio "difficile": emblematica la scena in cui Steve accompagna la madre a un appuntamento con un uomo in un locale dove fanno il karaoke e Steve decide di cantare Bocelli, Vivo per lei, mentre una gelosia bruta, terminale, distruttiva se lo divora nota dopo nota. Ho avuto i brividi, Dolan (il regista) stava facendo una richiesta precisa, in quel momento voleva che lo amassimo con rabbia e passione.L'irruenza di Steve dipende da un deficit comportamentale, l'iperattività, che gli impedisce qualsiasi tipo di autocontrollo. Diane è una mamma sola e senza lavoro, tenta in tutti i modi di accudirlo con le proprie limitate risorse. In suo aiuto, interviene una timida e balbuziente vicina di casa, professoressa in aspettativa, che con fare missionario impartisce qualche lezione a Steve, mentre Diane si barcamena alla ricerca di un'occupazione. E poi la dura realtà, in un Canada dove una legge fittizia permette ai genitori di scaricare i figli ingestibili in istituti di recupero. Un film sociale,in cui la crisi economica delle famiglie dal reddito basso, in cui i disagi sociali vengono oggi farmacologizzati possa in un futuro prossimo evolvere. Tutte le famiglie infelici finiscono per assomigliarsi, con le stesse prescrizioni terapeutiche.
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