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Mondi paradossali

Creato il 13 luglio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

di Iannozzi Giuseppe

Mondi paradossali
Quasimodo era per tutti lo Scemo del Villaggio.
La gente diceva che non aveva la testa nemmeno per reggersi in piedi.
Quasimodo caracollava, un po’ come un grosso bambino che abbia appena imparato i primi passi.
Non era bello.
Era un po’ gobbo, come Giacomo Leopardi.
Però non era brutto.
Un tipo onesto e leale, forte. Molto: aveva la forza di dieci uomini in un braccio.
Amava passare le sue giornate a dormire, a sognare nel folto dell’erba alta.
Sognava sempre tanto. Non dimenticava una sola fantasia.
Non di rado gli capitava di stare insieme ai bambini del Paese: a loro raccontava i sogni.
I bambini lo ascoltavano con gli occhi sgranati pieni di meraviglia. I mondi che Quasimodo gli descriveva erano del tutto diversi da quelli dei libri di favole. Erano dei supermondi, dove tutto era facile ma incomprensibile. Un giorno, un bimbetto, il più secchione del gruppo disse ad alta voce, perché tutti sentissero bene, che i supermondi di Quasimodo erano paradossali. Nessuno replicò, nessuno chiese che cosa significasse quella parola così strana. Ma da quel giorno, tutti i bambini del Paese cominciarono a parlare dei supermondi paradossali. Non c’era bambino in Paese che non avesse in bocca i mondi sognati da Quasimodo. I cuccioli d’uomo si radunavano in piazza, quando Quasimodo era per i campi a sognare, e discutevano tutti concitati dei mondi paradossali: tanto era il loro entusiasmo che le orecchie degli anziani non poterono fare a meno di carpire brandelli delle loro storie. Nel giro di poco anziani e bambini presero a raccontarsi fra di loro le storie dei mondi paradossali, cercando di carpirne il segreto… sempre che un segreto da portare alla luce ci fosse.

Un giorno il Sindaco del Paese passò per la piazza e notò l’assembramento di giovani e vecchi. Con fare circospetto salutò, portando la mano destra alla tesa del cappello e rimase in silenzio ad ascoltare, ma senza dare nell’occhio reprimendo qualsiasi emozione, perché non voleva che il volto tradisse il suo stato d’animo.
Una volta allontanatosi imprecò fra sé e sé: “Porca miseriaccia!”
In breve, un’ordinanza del Sindaco proibì le riunioni in piazza.
Vecchi e bambini si accomodarono allora in un piccolo bar. Ma la notizia arrivò all’orecchio del Sindaco, che con un’altra ordinanza vietò assembramenti di persone in locali pubblici quali bar, osterie, oratori, chiese, ed esercizi similari.
In poco tempo fu chiaro che il Sindaco odiava Quasimodo e le sue storie. Odiava chi raccontava dei supermondi paradossali. Non ci fu più un solo angolo dove anziani e bambini potessero ritrovarsi insieme. I vecchi cominciarono così a morire di noia, prima lentamente, poi sempre più a ritmo costante. I bambini cominciarono a crescere, diventando adulti prima del tempo.
Quasimodo rimase a sognare nei campi, senza più nessuno che venisse ad ascoltare i suoi sogni. Poi, un giorno d’inverno, raccolse i suoi pochi averi, ne fece fagotto e con un filo di tristezza lasciò il Paese, lasciando di sé e dietro di sé solamente delle grosse impronte sulla neve fresca appena caduta, impronte che il primo sole appena un po’ caldo avrebbe cancellato per sempre.

In un giorno d’estate il Sindaco, oramai tutto incartapecorito insediato dalla demenza senile e dal mal di cuore, tirò le cuoia. Fu seppellito, senza troppi convenevoli. Un funerale discreto, che non diede nell’occhio, al quale parteciparono il prete, un paio di chierichetti e… nessun altro in verità.


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