1) Scrive Eduardo Galeano: “In cosa somiglia il calcio a Dio? Nella devozione con cui lo seguono molti credenti e nella sfiducia con cui lo qualificano molti intellettuali… Una volta alla settimana, il tifoso fugge da casa sua e va allo stadio. Ondeggiano le bandiere, suonano le trombe, i razzi, i tamburi, piove la carta spezzettata; la città scompare, la routine si dimentica, esiste solo il tempio. In questo spazio sacro, la sola religione che non conta atei esibisce le sue divinità… Il disprezzo verso il calcio di molti intellettuali conservatori si fonda sulla certezza che l’idolatria della palla è la superstizione che si merita il popolo. Posseduta dal calcio, la plebe fa ciò che l’è proprio: pensare coi piedi, realizzandosi in questo godimento subalterno in cui l’istinto animale s’impone alla ragione umana e l’ignoranza schiaccia la cultura. A sinistra, pur se non sono mancati intellettuali che l’hanno celebrato invece di ripudiarlo come anestetico della coscienza (Antonio Gramsci, ad esempio, elogiò «questo regno della lealtà umana esercitata a piena aria»), per molti di loro va combattuto perché castra le masse deviando la loro energia rivoluzionaria. Pane e circo, circo senza pane: ipnotizzati dalla palla e dal suo fascino perverso, la coscienza degli operai si atrofizza e i lavoratori si fanno condurre come mansuete gregge dai loro nemici di classe” (“Splendori e miserie del gioco del calcio”).
2) Nell’estate del 1916, in piena guerra mondiale, un capitano inglese si lanciò all’assalto di una trincea tedesca calciando una palla. Correndone dietro, il capitano Nevill si mise alla testa dell’assalto. Morì quasi subito, per un colpo di cannone non per una pallonata, ma l’Inghilterra conquistò quella terra di nessuno e celebrò quella battaglia come la prima vittoria del calcio inglese sul fronte di guerra.
Molti anni dopo, il proprietario del Milan vinse le elezioni con lo slogan “Forza Italia!”, saccheggiato agli stadi. Silvio Berlusconi si era impegnato a salvare l’Italia come aveva salvato il Milan. Sappiamo com’è andata a finire con l’Italia. Restando al calcio, va ricordato che quando Silvio Berlusconi acquistò il Milan in bancarotta, dispiegò tutta la coreografia. Un pomeriggio del 1987, scese lentamente in elicottero al centro dello stadio mentre dagli altoparlanti cavalcavano le Walkirie di Wagner. Da parte sua, Bernard Tapie era solito celebrare le vittorie dell’Olympique Marsiglia con grandi feste condite da fuochi d’artificio e raggi laser sotto il ritmo incalzante del rock.Perché calcio e patria vengono spesso legati, politicanti e dittatori ci speculano. In Italia la storia viene da lontano. Nel 1934 e nel 1938, ad esempio, i giocatori iniziavano ogni partita facendo il saluto romano. Vinsero i due mondiali in nome della patria e di Mussolini. Celebrando la vittoria sul Brasile nella semifinale del 1938 la stampa scriveva: “Salutiamo il successo dell’italica intelligenza sulla forza bruta dei negri”. Dopo la vittoria in finale contro l’Ungheria, “La Gazzetta dello Sport” esaltava “L’apoteosi dello sport fascista in questa vittoria della razza”.
Anche per i nazisti il calcio era un affare di Stato. In molti abbiamo visto la fiaba raccontata nel film “Fuga per la vittoria”, che finisce con la vittoria dei prigionieri liberati per i 90 minuti della partita con una fantastica rovesciata di Pelè e un rigore parato da Sylvester Stallone (ma la fiaba cinematografica è di gran lunga inferiore alla bellezza del “calcio di rigore più lungo del mondo”, raccontato da Osvaldo Soriano) ma, a Kiev, un monumento ricorda i giocatori della Dinamo che, nel 1942, sotto occupazione tedesca, sconfissero una squadra selezionata da Hitler. Raccontano le cronache dell’epoca che i giocatori erano stati avvertiti: “Se vincete, morirete”. Che entrarono in campo rassegnati, tremando di paura e di fame, ma non riuscirono a reprimere la voglia di dignità. Alla fine della partita, tutti gli undici furono fucilati con la maglia nazionale addosso, per “leso gol ai carnefici”.
3) Da quando si è diffuso universalmente, tradizionalmente il calcio ha spesso riflettuto l’anima nazionale. Dopo avere abbandonato i panni di uno sport per inglesi, bianchi e ricchi (e per i loro emuli), ha raggiunto la sua massima potenza e bellezza in Sudamerica, praticato soprattutto dai poveri e dagli emigrati delle periferie urbane. Perché il tango è un pensiero triste che si balla e il calcio ha le cadenze del ballo, sulle due sponde del fiume de la Plata ha preso l’emozione e le forme del tango e della milonga, ritmo lento, grande destrezza fisica, forza, accelerazioni improvvise, improvvisazione combinate. Un po’ più a nord ne aggiunsero la spensieratezza e armonia del samba e del bossa nova.
Tuttavia, da qualche tempo la squadra brasiliana si è vuotata all’oblio, non vuole più essere brasiliana. “Quel calcio fatto da spettacolari giochi di gambe è passato alla storia”, ha sentenziato il tecnico, Luiz Felipe Scolari Felipao, un amante della mediocrità che, oltre a emettere il certificato di morte per il calcio più bello del mondo, pratica la disciplina militare. Nulla di strano. Probabilmente Rai o Sky non avranno mai il tempo per raccontarlo, troppo occupati dalla disamina dei suoi acuti pensieri tattici, ma Scolari è lo stesso che ha dichiarato di ammirare Pinochet, di adorare l’ordine e di non fidarsi del talento, “anarchico per definizione”.4) Legge del mercato, legge universale del successo. In questo contesto, c’è sempre meno spazio per l’improvvisazione e la spontaneità creative. Ogni giorno diventa più importante il risultato, meno l’arte, e il risultato aborrisce il rischio e l’avventura. Si gioca per vincere, o per non perdere, non per godersi l’allegria di regalare allegria. Iniettando acqua nelle vene, il calcio diventa sempre più freddo. Dicono che questa iniezione d’acqua ne garantisce efficacia. La passione del giocare per giocare, la libertà di divertirsi e divertire, l’invenzione inutile e geniale, sono ormai nostalgiche evocazioni. Legge del mercato, legge del più forte.
Con la povera prosa della Rai, tale filosofo Marco Mazzocchi garantisce: “Noi siamo l’Italia, loro soltanto il Costarica. Mai potranno confrontarsi con la ricchezza, l’organizzazione ed i costi del nostro campionato”. Oltre facili battute, è vero che nell’organizzazione disuguale del mondo il calcio sudamericano è un’industria di esportazione, che produce per altri. Come in qualsiasi altro settore, la regione ha funzioni di servitù nel mercato internazionale avendo perso, anche in questo caso, il diritto a svilupparsi verso sé stessa. Sempre più spesso, i giocatori di Argentina, Brasile, Cile, Colombia o Uruguay si conoscono sull’aereo. Nemmeno uno su tre gioca nel proprio paese, gli altri sono emigrati che appartengono, quasi tutti, a club europei. Il Sud non vende solo braccia, ma anche gambe, gambe d’oro, ai grandi centri della società di consumo. Consola solo verificare che sono i soli immigrati che l’Europa accoglie senza intoppi burocratici e fobie razziste. Come canta Mina, la gente crede che la terra sia rotonda e molto si assomigli alla palla che gira magicamente sul manto erboso degli stadi, ma anche il calcio dimostra che questa terra non è troppo rotonda.
4) Col mondiale brasiliano abbiamo imparato, o confermato, diverse cose. Ad esempio:
- Che le carte di credito MasterCard tonificano i muscoli e la birra Beck, la Coca-Cola e gli hamburguer McDonald’s sono consustanziali al menù degli atleti.
- Che Adidas continua a combattere strenuamente ed eroicamente la sua guerra contro la Nike.
- Che molte squadre nazionali sono fatte da immigrati. In Francia, la vittoria del Fronte nazionale alle recenti elezioni e tutte le inchieste dicono che per la maggioranza dei francesi sarebbe oltremodo positivo cacciare gli immigrati ma, curiosamente, tutti i francesi celebrano i gol di Benzema, per l’occasione innalzato a figlio autentico di Giovanna d’Arco.- Che, miracolosamente, il calcio continua a sorprendere. Nessuno avrebbe scommesso un soldo per il Costarica, ad esempio.
- Che, sorprendentemente, il calcio continua ad avere capacità di bellezza malgrado, negli albori del Terzo millennio dell’era cristiana, il calcio calcolatore e difensivista sia piuttosto avaro di bellezza.
5) Perché la Spagna ha perso? Secondo la TV, contro gli olandesi perché questi erano più bravi. Invece, sembra che la seconda partita – quella definitiva – l’abbiano persa da soli. Facendo scomparire i meriti del Cile parrebbe che, più che giocare a calcio, abbiano giocato a squash in un appassionante scontro contro un muro. Certo, qualche immigrato pallonaro ha imparato a giocare nel frattempo, ovviamente da queste parti. Come a dire, ci siamo allevati il serpe in casa.
Il razzismo inconscio è certamente più subdolo di quello aperto, non meno efficace. Quello pallonaio, un’altra forma di pensiero eurocentrista. La sera della sconfitta col Costarica, mentre facevo benzina a Città di Castello, l’addetto si lagnava: “Stiamo perdendo con questi africani maiali”. L’ho consigliato di acquistarsi una cartina per verificare la collocazione del Costarica in Centroamerica e di abbandonare l’idea che gli africani siano dei maiali. Non ha apprezzato.
A Recife, la sera prima, aveva parlato Balotelli. “Quanto è maturato e sereno”, affermava il filosofo di cui prima. “Certo, qui è molto amato ed i bambini lo cercano, forse lo sentono vicino”. Dimenticava che, da quelle parti, nessuno urla al suo cospetto, “Non ci sono italiani negri”, “Devi morire” e altre amenità. Così facendo, temo, non capirà mai la ragione della raggiunta serenità.
6) E le manifestazioni di protesta in Brasile? In un altro contesto ben più serio, in occasione del Mondiale in Argentina del 1978, scrissi che, oltre a giocare, oltre a divertirsi, nessuno doveva far finta di giocare in un paese normale e che bisognava sconfiggere la dittatura con tute le armi, ivi compresa il calcio e la sua bellezza. Ai governi progressisti dell’America latina possono farsi molto critiche, a quello brasiliano anche quella di avere sperperato soldi pubblici ma, penso sia più grave, di avere ripulito territori abitati dai poveri per costruirvi abitazioni per turisti o ampliare stadi, di avere vietato il commercio ambulante in cambio di un sorriso della Nike e i suoi fratelli, di avere regalato alla FIFA guadagni ed esenzioni fiscali inaccettabili pur se, su quest’ultimo tema, Manu Chao ci ha insegnato (“Sì yo fuera Maradona”) che bisogna “gritar a la FIFA que ella es el gran ladròn”.
Nel 2022 la festa pallonata si svolgerà nel Qatar, sotto 40 gradi all’ombra e sopra tanti operai – immigrati – morti. Si sa che gli sceicchi hanno pagato profumatamente la maggioranza dei ladri componenti il direttivo dell’associazione di ladri denominata FIFA per guadagnare la nomina. Confesso tuttavia che trovo questo disastro, annunciato, poco appassionante, salvo per quanto riguarda la salute dei giocatori perché, a godere di una eventuale revoca, sarebbe l’Inghilterra, quelli del mondiale vinto con un gol fasullo, quelli che manifestano il loro carattere nazionale giocando a calcio come se di carica militare si trattasse, appartenendo a una stirpe che arriva all’orgasmo malmenando gli altri.
Sono conscio: avrei dovuto fare un articolo più politico e critico verso il business del calcio, ma mi è venuto così. Forse non sono nato urlando gol come, secondo Galeano, fanno tutti gli uruguaiani scatenando il putiferio nelle sale di maternità. Certamente non credo che una vittoria di un paese impoverito qualsiasi rappresenti una rivincita su secoli di colonialismo e schiavitù, i primi, più gravi e più estesi crimini contro l’umanità (senza voler diminuire la successiva Shoah). Tuttavia, non potendo chiudere come avrei voluto, mi accingo a guardarmi le partite mancanti, solidarizzando con tutti i manifestanti del Brasile impediti, anche, di assistere alle partite per il costo proibitivo dei biglietti. Va da sé: chiedo scusa di cotanta banale e fanciullesca malleabilità.