Yoko è fuori dal comune. Una ciocca bionda vezzosamente ribelle rispetto agli altri capelli neri, lisci, raccolti da un elastico sempre viola; minuta, magra, scura di carnagione, una conformazione del viso che ricorda un roditore, o per meglio dire topo, una costante espressione di scorno per l’ennesima vendita mancata, occhi sottili quasi orientali, quasi vicini.
Si dà un’occhiata allo specchio e decide di meritarsi un sorriso. Estrae il cellulare, esteticamente superbo, come le unghie, anzi indistinguibile dalle unghie, entrambi glitterati di cristalli iridescenti, incastonati da pietre fluorescenti, plastificati con smalti policromi; controlla inutilmente che non sia arrivato un messaggio, sa che l’avrebbe sentito, ma non può smettere di sperare, quindi si mette in posa per un autoscatto: denti smaglianti e V di vittoria davanti alla faccia, indice e medio tesissimi fuori dal piccolo pugno. Click. Check. Perfect. Da spedire a tutte le amiche, per farle morire d’invidia. Strana abitudine importata, insieme al cellulare ed alle unghie, direttamente dal Giappone, patria ideale della Piccola Lunatica, laddove, ed esclusivamente dove, tutti potrebbero capirla, o almeno qualcuno, a suo dire.
Poi, a Nicole, la sua amica del cuore, un messaggio speciale:
COME VORREI ESSERE LÌ! QUI MI ANNOIO UN CASINO.
Nicole ha dieci anni meno di Yoko, ma a vederle insieme non si direbbe. La Piccola Lunatica sembra più giovane dei suoi trent’anni ed è piuttosto infantile, ma non la si può accusare di nulla: se avesse conosciuto suo padre, di sicuro non sarebbe così volubile! Si chiamava Takeshi, faceva il liutaio o il violinista, non ho mai capito. Dopo l’ennesimo litigio con Olga, la madre di Yoko, se n’è tornato in Giappone, per esercitare lì la sua professione. Nessuno lo sa, ma Yoko ha una foto di suo padre nascosta in uno dei cassetti qui attorno.
“Buongiorno.”
“Buongiorno Signora!”
“Sono passata anche ieri, verso l’una, ma era chiuso.”
“Ma oggi è prima di ieri! Basta non arrivare in pausa pranzo e ci trova aperti…”
“Ci chi? Credevo fosse sola…”
“Io e Piraña… quel pesce lì… lasci stare, è una storia lunga…”
“Capisco… Peccato che a me sia più comodo passare a quell’ora che adesso. Ho dovuto prendere un permesso per uscire dal lavoro. Speriamo almeno di trovare quel che cerco.”
“E cosa cerca?”
“Uno Yukata.”
“Mi spiace, ma non teniamo abiti in negozio. Non saprei nemmeno dove metterli, non le pare? Siamo già sullo stretto così! Se vuole però glielo faccio arrivare. Se mi dice i colori e la fantasia che preferisce…”
“Speravo di avere un po’ di scelta. E se quello che arriva non mi piace?”
“Non importa, non è mica obbligata a comprarlo.”
“Ma così rimango comunque senza…”
“Ne farò arrivare altri…”
“Non posso passare di qui tutti i giorni! Ho anche altro da fare, cosa crede? Non conosce un negozio che venda abiti tradizionali giapponesi, in città?”
“No, d’altronde gli articoli giapponesi non vanno più di moda, ultimamente. E dico per fortuna: non se ne poteva più di sushi, sashimi e tamagotchi.”