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February 4th, 2016
Andandomene da Milano mi sarebbe piaciuto scrivere qualcosa di intenso per celebrare il momento, come per esempio l'Addio ai monti del Manzoni. Però uno dei tirapiedi di Critchenko che volava con noi ha acceso una grossa ghetto blaster, sparando a volume altissimo una canzone di Ke$ha. Visto che era impossibile concentrarsi, mi sono limitato a guardare in basso man mano che il Cessna prendeva quota, utilizzando la lunga strada che attraversa il Parco di Trenno come pista di decollo.
Fuori era buio (come previsto siamo partiti all'alba di un giorno gelido), e Milano sembrava una grossa macchia nera in cui, qua e là, si notavano a malapena alcune rarissime luci soffuse. Forse si trattava di qualche altro sopravvissuto, o magari di strutture illuminate automaticamente e ancora alimentate da batterie fotovoltaiche. Chissà. Anche i miei compagni di viaggio guardavano il panorama dai finestrini, zitti e pensierosi. Non avevamo salutato nessuno, se non Critchenko, prima di partire. Anna e Linda non si sono fatte più vedere. Probabilmente erano già state spostate nel “quartiere delle signore”, come lo chiama il boss ucraino. A ogni modo dubito che ci avrebbero riservato parole d'affetto. Come non capirle? Tirando le somme, gli unici a essere di buon umore a bordo dell'aereo erano i due uomini che Critchenko aveva affidato come scorta a Rajiner, il suo vice, che ci ha fatto da pilota.
Volare sopra l'Europa morta e derelitta non è stato diverso rispetto ai vecchi tempi, ma solo per il fatto che eravamo così in alto da non notare la differenza. Per fortuna Rajiner ha ordinato al tizio col la ghetto blaster di fare silenzio, così ci siamo goduti il resto del viaggio in un silenzio quasi assoluto. Solo Santini, l'intellettuale del gruppo, si è piazzato al posto di coopilota per discutere con lo slavo riguardo alla nostra meta. Il vice di Critchenko ci ha presi a cuore, limitatamente alla situazione, sia chiaro, tanto che si è premurato di darci un po' di indicazioni utili per sopravvivere nella verde Irlanda.
«Lì potrete ricominciare», ci ha detto Rajiner, ripetendo le parole del suo capo. «L'isola è in buona parte disabitata e ci sono anche pochi contagiati ancora in vita. Nemmeno gli inglesi ci mettono piede, almeno per il momento. Trovatevi un posto tranquillo e create la vostra comunità.»
L'idea non ci esaltava, ma ci rendevamo conto che il boss ucraino era già stato fin troppo generoso a trattarci così. Si vede che, avendogli consegnato Torre B, si sentiva in debito con noi. Un qualche senso dell'onore gli aveva impedito di ammazzarci su due piedi, e alla fine ci ha anche offerto questo esilio extraterritoriale e un passaggio per raggiungerlo.
L'Irlanda vista dall'alto era quella di sempre: verde, seppur spruzzata di neve, e affascinante. Io però ho sempre odiato questo genere di mete. Ero più un tipo da vacanza al mare, con tutti i comfort. Altro che bed & breakfast e gironzolare con lo zaino in spalla.
Siamo atterrati nel sud-ovest dell'isola, in un vero e proprio aeroporto: Shannon, vicino alla cittadina di Limerick. Già dal cielo si notava che anche lì il paesaggio era postapocalittico: non c'erano movimenti né in strada né nel vicino, omonimo fiume. Molti edifici del complesso apparivano in parte bruciati e le erbacce spaccavano in più punti l'asfalto delle piste d'atterraggio. C'erano anche un paio di aerei di linea abbandonati fuori dagli hangar, nonché qualche scheletro umano spolpato, a punteggiare di bianco i prati perimetrali.
Rajiner ha spento il motore del Cessna ma, prima di scendere, si è messo a trafficare con la radio. Nel mentre i suoi due gorilla guardavano fuori dai finestrini stringendo gli AK47, senza più fare i cazzoni. Noi ce ne siamo stati zitti, ascoltando il serbo mentre prendeva contatto con qualcuno, parlando sottovoce in inglese. Dopo qualche minuto ci ha sorriso col suo tipico fare malinconico, affermando che potevamo finalmente sbarcare.
Mentre scaricavamo gli zaini che ci era stato concesso tenere, un piccolo gruppetto di persone è sbucato a piedi dal terminal più vicino, desolato come il resto dell'aeroporto. Erano in quattro, vestiti con giacche da cacciatori, stivali di gomma, e armati con doppiette e coltellacci infilati nelle cinture. Il più anziano spingeva un carrello portabagagli, stipato di scatole di cartone sigillate col nastro adesivo. Dopo qualche titubanza Rajiner ha avvicinato il loro capo, un rosso grande e grosso, con una fitta barba color carota che gli copriva il viso. Hanno parlato per un po', tenendosi a debita distanza da noi. Non vi nego che ho pensato a un brutto scherzo, del tipo che Critchenko ci aveva portati fin lì solo per venderci come schiavi, o qualcosa del genere. Anche Harmke doveva avere gli stessi dubbi, visto che fissava con insistenza il Kalashnikov di uno dei nostri custodi, pronto a strapparglielo nel caso le cose fossero degenerate. Invece, dopo una decina di minuti di fitta conversazione, Rajiner è tornato da noi, ordinando ai suoi uomini di “scaricare la merce”.
In pratica quei quattro cialtroni sono gli autoeletti custodi dell'aeroporto di Shannon. Nella vicina città c'è una piccola comunità di sopravvissuti, una quarantina di persone in tutto, tra ex abitanti locali e profughi di Limerick, caduta durante la seconda Estate Gialla. A quanto pare il rischio di sbarchi aerei è assai limitato ma, nel caso si verifichino, la milizia di Shannon è lì per imporre la sua legge. Da quel che ho capito Critchenko ha già spedito qui qualcun'altro in passato, anche se non so di chi si tratta. In tal modo ha anche allacciato una sorta di trattato commerciale con gli irlandesi. I tirapiedi dell'ucraino barattano droga, munizioni e ricambi d'auto in cambio di whiskey, carne essiccata e perfino legna da camino. Certo, non sono affari che valgono un volo aereo, infatti fanno da corollario a viaggi con altre finalità, come per esempio il nostro.
Gli irlandesi ci avevano permesso di sbarcare, ma non ci volevano tra i piedi. Su questo sono stati categorici. Il rosso, che si chiama Robert qualchecosa, ci ha detto di spingerci verso l'interno, a suo dire quasi del tutto desolato, fino a trovare un posto dove sistemarci. Tra le ripetute crisi economiche, che qui han colpito duro anche prima della Gialla, e una rapidissima escalation della pandemia, il popolo irlandese è stato decimato alla svelta, lasciando un sacco di spazio libero.
A quanto pare nemmeno gli inglesi mettono il naso da queste parti. Un po' perché hanno, da quel che ho capito, una buona dose di problemi nell'Ulster. Un po' perché la scarsissima percentuale di superstiti in Irlanda fa temere a Cameron una particolare diffusione del prione, magari in qualche forma mutagena. Una leggenda metropolitana che fa comodo alla gente di Shannon, e alle poche altre comunità locali dislocate lungo la costa atlantica.
Conclusi gli scambi commerciali, Rajiner ci ha consegnato gli zaini e un paio di extra fuori programma: un fucile a canne sovrapposte, la mia balestra compound (che pensavo di aver oramai perso) e una sacca da palestra piena di scatolette di fagioli, ceci e carne di manzo in conserva. Sapevo che quelli erano suoi doni personali, fatti all'insaputa di Critchenko, perciò mi sono quasi commosso. Lo slavo ci ha salutati con calore, prima di tornare sul Cessna. «State vivi», ci ha detto. «Magari un domani verranno tempi migliori.» Dettò ciò se lui e i suoi ragazzi se ne sono andati.
Siamo rimasti a fissare l'aereo finché non è diventato un puntino nel cielo nuvoloso. Oramai eravamo soli, lontani da casa, senza via di ritorno.
Robert e i suoi erano ancora lì. Non mi piaceva il modo in cui guardavano Cristina, perciò mi sono affrettato a caricare la balestra, pur non puntandola contro di loro. Harmke ha fatto lo stesso col fucile. Il tedesco fa la sua figura, armato o disarmato. Per fortuna ha deciso di rimanere dalla nostra parte, anche dopo il macello a Torre B. Prima che il troppo testosterone combinasse guai, Santini si è deciso a fare da mediatore culturale.
«Ce ne andiamo, non temete», ha detto a Robert. «Ma ci serve un automezzo. Siamo in sette, e Luigi è molto anziato.» Nonché conciato male, a livello psicologico e fisico, c'era da aggiungere. La morte di Manuel lo aveva abbattuto.
«Non abbiamo auto da vendervi», ha tagliato corto il rosso. «Se vi accontentate possiamo darvi uno dei kart elettrici dell'aeroporto, in cambio di quel fucile.»
Abbiamo trattato per un po', e alla fine siamo riusciti ad acquistare il kart, utile solo per trasportare Luigi, rifilando ai villici il borsello di pelle di Valenziano (con ancora il marchio Trenitalia ben visibile) e una delle trapunte che Max aveva insistito di portarci dietro. Uno scambio a malapena accettabile, considerando che il trabiccolo era per metà scarico, con un'autonomia di sole sei ore, e dotato di un misero motore da 48 volt.
Robert ci ha consigliato di dirigerci in direzione nord-est, verso la contea di Offaly dove, a suo dire, ci sono pochissimi Gialli e un convento abbandonato dove potremmo insediarci. L'abbiamo ringraziato e salutato, ma in realtà sapevamo esattamente dove andare. Ne ho parlato ai miei compagni nei giorni prima della partenza e tutti sono stati concordi: raggiungere Hell, al secolo Germano, è una buona idea. Avere un appoggio, un amico in terra straniera, era il nostro unico punto di riferimento.
Io e lui ci siamo sentiti via e-mail (Critchenko non ci ha affatto proibito di navigare su ciò che rimane di Internet) e, sorpresa delle sorprese, alla fine Germano ha concordato con la mia idea di incontrarci e di unire le forze. Certo, ha le sue lecite titubanze, ma credo si fidi di me. Un po' meno degli altri, ma ho garantito io per loro. Così alla fine mi ha dato le coordinate per raggiungerlo in un posto sicuro, il suo ultimo rifugio.
L'unica cosa da fare era metterci in movimento, procedendo lungo la N7, che costeggia il fiume Shannon, passando a sud di Limerick per poi immetterci sulla strada che ci avrebbe portato a destinazione. All'inizio abbiamo marciato con fiducia, sicuri di trovare prima o poi un veicolo ancora funzionante con cui muoverci più in fretta, senza massacrarci i piedi. Abbiamo sistemato Luigi sul kart, guidato a turno da Valenziano e da Max. Il freddo era intenso, tanto che non dovevano esserci più di uno o due gradi. Il povero vecchio poteva contare solo sulle coperte in cui l'avevamo avvolto; non che noi fossimo così ansiosi di camminare nel gelido nulla chiamato Irlanda. I prati e la strada erano punteggiati di neve. Probabile che, più in là verso est, nevicasse ancora. Ma era meglio pensare a un problema alla volta.
Tra l'altro l'umore di molti di noi era preoccupante. Cristina, ancora scossa dal fallimento del suo piano riguardante Torre B, parlava sempre meno. Quel che mi dava più fastidio era la sua tacita accettazione delle attenzioni di Harmke, che le gironzolava sempre più spesso intorno. Anche Valenziano non era particolarmente attivo né entusiasta degli sviluppi della faccenda. Ci seguiva perché non aveva più alternative, tuttavia gli si leggeva in faccia il rimpianto per aver lasciato il suo rifugio sicuro e solitario a Porta Garibaldi, ficcandosi in quella serie inusitata di guai. Alla fin fine Max e Santini erano quelli messi meglio. L'ex bibliotecario, l'intellettuale del gruppo, mi ha confessato più volte di sentirsi come il protagonista di un romanzo d'avventura. Magari Mondo perduto di Conan Doyle, visto che l'Irlanda perduta lo era per davvero. Ci mancava soltanto che sbucasse un T-Rex per complicarci la vita.
Detto tra noi devo però confessarvi che, ora dopo ora, ho iniziato a condividere il suo entusiasmo. Dopo mesi trascorsi a rifugiarmi come una tartaruga nel suo guscio o a fuggire come una lepre, finalmente stavo facendo qualcosa di diverso: cercare un posto dove costruire un futuro.
Le prime ore di marcia sono state estranianti. Le ricorderò sempre. Il paesaggio irlandese è ancora più desolato di quello dei monti della Valsassina, che conosco molto bene. La differenza sostanziale è che qui i Gialli sembrano essere scomparsi per davvero. Parlo di quelli vivi, visto che di cadaveri ce ne sono in abbondanza. La maggior parte sono carcasse scheletrite, ripulite dai corvi e dal trascorrere del tempo. Ce ne sono nei campi, nei prati, sulle auto abbandonate sulla strada. Perfino sull'asfalto, anche se in numero minore. Qua e là ci sono anche delle pile di legna annerite, forse i resti di roghi funebri, o qualcosa del genere. E poi ci sono gli animali. Lepri dal manto bianco, scoiattoli, dei cosi pelosi che dovrebbero essere ermellini. Abbiamo intravisto anche delle volpi rosse, incuriosite dal nostro passaggio. La natura si sta riprendendo il suo spazio e noi siamo gli elementi fuori contesto, c'è poco da fare.
La sera del primo giorno, stremati e senza essere riusciti a trovare un veicolo ancora funzionante, ci siamo accampati in una specie di fattoria abbandonata nei pressi di un minuscolo borgo indicato dalla segnaletica come Bunratty East. Nulla più di una manciata di case che, dal secondo piano della fattoria, vedevamo in distanza. Senza segnali di vita né altro. Quel posto era già stato saccheggiato da cima a fondo, perciò ci siamo limitati a piazzare coperte e sacchi a pelo per dormire, decidendo i turni di guardia. Se non altro nelle auto frugate strada facendo avevamo trovato un bel po' di armi improvvisate da utilizzare in caso di imprevisti: cacciaviti, cric, martelli e chiavi a brugola. Non molto, ma pur sempre meglio di niente.
Cristina si è appartata col crucco, lasciando me e Max (che fino a pochi giorni prima era geloso del sottoscritto) a cuocere di altra inutile gelosia. Più lui di me, a dire il vero. In fondo ho capito da tempo che con la mia amica reporter non c'è nessun feeling in quel senso. Solo non la credevo attratta dal tipo “grande grosso e armato” come Harmke. Valle a capire, certe cose.
La mattina successiva Luigi aveva un bel febbrone da cavallo. Il freddo aveva fatto la sua parte, così come la depressione in cui era caduto da giorni. Coi pochi antipiretici a nostra disposizione potevamo limitare i danni, ma era evidente che la situazione sarebbe peggiorata di ora in ora, anche considerando che al maledetto kart elettrico restavano solo pochi chilometri di autonomia. Non potendo fare altro ci siamo rimessi in marcia, seguendo la strada principale, che ci permetteva di procedere più spediti. Se non altro il freddo intenso ci levava il pensiero di eventuali Gialli erranti. Anche se, come già detto, non ne avevamo visto ancora uno, nemmeno rintanato in qualche carcassa d'auto per ripararsi dal gelo.
Strada facendo abbiamo notato diverse stranezze, nella gelida e immota campagna irlandese. È come se su quest'isola ci sia un'anticipazione di quello che diventerà il panorama europeo (forse mondiale?) tra due o tre anni. Nessun essere umano tra i piedi, né sano né contagiato, solo vestigia sempre più vetuste dei tempi andati. Eppure qualche segnale di vita c'era ancora. Peccato che fossero del tutto inquietanti, come i tre cadaveri impiccati a un albero, visti ai margini di un pascolo sulla nostra destra. Nessuno di noi si è sognato di avvicinarsi per guardarli da vicino, ma tanto ci è bastato per procedere armi alla mano.
A mezzogiorno in punto le batterie del kart si sono esaurite del tutto. Quando Max, che era al volante, ha fatto per svegliare Luigi, si è accorto che non respirava più. Le coperte in cui era avvolto, divorato dalla febbre, si erano dunque trasformate in sudario. La sua morte non è stata una sorpresa; del resto era peggiorato di giorno in giorno dopo il contagio e la dipartita del povero Manuel. Ciò nonostante ci siamo rimasti male. Specialmente io. Luigi era la persona, tra quelle presenti, che conoscevo da più tempo. Averlo portato via da Tremezzo è stato un po' come condannarlo a morte. Ma oramai non ho nemmeno più spazio per i sensi di colpa.
Non avendo attrezzi per scavare una fossa lo abbiamo avvolto del tutto nella coperta, deposto sul kart come se si trattasse di una barca funebre scandinava, e infine abbandonato al margine della strada, sotto un faggio solitario. Mi è parso di notare una lacrima sul volto di Cristina, ma non ho osato dirle nulla. Quindi abbiamo ripreso a camminare.
Poco prima del tramonto eravamo stremati. I piedi gonfi, la pelle screpolata dal freddo e l'acido lattico ci stavano distruggendo. Trovare una maledetta auto con la batteria ancora carica sembrava un'impresa tanto ardua quanto la ricerca del Graal. Però c'era un'opzione che oramai dovevamo prendere in considerazione. Fino a quel momento avevamo evitato di entrare nei centri abitati, girandoci intorno per evitare sorprese. L'incontro coi tizi di Shannon non ci aveva predisposto nel migliore dei modi nei confronti degli indigeni. Ma a quel punto non potevamo più permetterci il lusso dell'eccessiva prudenza. Così abbiamo deciso di dare un'occhiata al paese più vicino sulla nostra tabella di marcia: Setright's cross.
Se non altro si trattava di un buco con poche case, nella tipica architettura della zona, circondato da pascoli e campi spruzzati di neve. La fortuna poi sembrava arriderci, visto che un cartello indicava un'officina meccanica in centro. Proprio ciò che cercavamo. Guardandoci attorno, pronti al peggio, l'abbiamo localizzata. Ovviamente si trattava di un posto proporzionato alle minuscole dimensioni di Setright's cross, ossia un garage piccolo, ma ben fornito, con la serranda abbassata per metà, a facilitarci le cose. In giro non c'era nessuno, nemmeno cani o gatti randagi. Un paesaggio spettrale e angosciante.
Dentro invece ci aspettava una bella sorpresa: una Volvo XC90 a sette posti, color verde alpino, cerchi in lega, ruote invernali e interni in pelle. Ma, soprattutto, tre batterie di ricambio in bella vista sullo scaffale metallico degli attrezzi. Era l'unico veicolo dell'officina, ma sembrava messo lì apposta per noi. Mentre Valenziano si dava da pare per cambiare la batteria, noi abbiamo dato un'occhiata in giro, scoprendo perché il meccanico aveva lasciato lì la Volvo, pronta e addirittura carica con due confezioni da sei bottiglie d'acqua naturale e una decina di scatole di aringhe sott'olio. In un minuscolo sgabuzzino c'era il cadavere rattrippito di una donna sui quaranta, dalla pelle gialla, mummificata nell'atto (inutile) di grattare la porta metallica. Il proprietario dell'officina era invece seduto sulla tazza del cesso, con parte del cervello spalmato sul muro e una doppietta stretta tra le ginocchia.
Immagino la scena: marito e moglie erano in procinto di fuggire, quando lei gli rivela di essere infetta. Il meccanico decide quindi di aspettare, per non correre il rischio di imbattersi in qualche pattuglia dei “gruppi sanitari” organizzati dalla An Garda Síochána, la polizia irlandese. La moglie peggiora giorno per giorno e lui la chiude nello sgabuzzino, incapace di abbandonarla o di ucciderla e di andarsene. L'epilogo è di quelli tragici: suicidio per l'uomo, morte per fame per la donna, diventata oramai una Gialla.
Venti minuti più tardi eravamo pronti a rimetterci in movimento, questa volta su un'auto comoda, pulita, dal serbatoio pieno. Se esiste un paradiso, in quel momento era la Volvo XC90 che avevamo trovato. Valenziano ci ha chiesto di poter guidare e l'abbiamo lasciato fare, montando a bordo. Tutti tranne Max, che si è offerto di sollevare del tutto la serranda per farci uscire.
Non ha fatto in tempo ad alzarla quando l'abbiamo visto cadere a terra come fulminato. Solo pochi minuti dopo avremmo scoperto che aveva il cranio sfondato da una biglia d'acciaio dal diametro di 8 mm, scagliata da una fionda. Morto sul colpo.
Harmke è stato il primo a reagire. È sceso dall'auto imbracciando il fucile da caccia, scivolando sotto la serranda, chino in posizione di tiro. Prima che riuscissi a raggiungerlo stava già sparando. Una seconda biglia mi ha sfiorato l'orecchio destro appena mi sono inginocchiato a fianco di Harmke. Quindi li ho visti: quattro ragazzini, a circa cinquanta metri da noi, sulla strada principale di Setright's cross. Un quinto era steso a terra in una pozza di sangue. Il più grande poteva avere sedici anni, gli altri tra i tredici e i quindici. Un paio erano armati di fionde professionali, gli altri di coltellacci e giavellotti ricavati da pezzi di metallo.
«Coprimi!», ha urlato il mio compare, mentre ricaricava il fucile. Senza mirare troppo ho scagliato un dardo di balestra verso i ragazzi. Nemmeno a farlo apposta, ho colpito in pieno petto uno dei due frombolieri, abbattendolo all'istante. A quel punto i suoi compari devono aver pensato di trovarsi di fronte degli avversari troppo combattivi, perciò si sono dati alla fuga, rinunciando ai propositi di saccheggio. Harmke però non ha avuto pietà: ha preso la mira con calma e ha sparato a quello di coda, che a occhio e croce doveva essere il più giovane della banda. Il proiettile monopalla gli ha sfondato la schiena, mentre gli altri ragazzini scomparivano sul retro delle case abbandonate di Setright's cross.
Avevo appena ammazzato un adolescente e non me ne fregava nulla. Cristina piangeva la morte di Max e anche Santini, di solito molto british nell'atteggiamento, era sconvolto. Era un loro amico di lunga data, un amico del vecchio mondo. Sì erano conosciuti quando le cose ancora andavano per il verso giusto, e il giallo era solo un colore come gli altri. Max era sopravvissuto per mesi a Milano, nascosto in una cazzo di biblioteca, per poi venire a morire in questo paese di merda. Certo che la vita a volte è propria sadica.
Avrei voluto dire qualcosa a Cristina, ma ogni parola mi sembrava banale, superflua. Perfino Harmke non ha provato a consolarla, anche perché controllava la serranda, nel caso i piccoli bastardi fossero tornati alla carica. Poi, di punto in bianco, la ragazza si è alzata, ha preso un telo da uno scaffale e ha coperto il cadavere di Max. Ci ha guardati uno a uno, senza nascondere le lacrime, e ha detto soltanto «Andiamoce.»
E ce ne siamo andati.
Procedere al buio era un'idiozia, infatti ci siamo fermati a quindici chilometri da Setright's cross. L'indomani avremmo rapidamente raggiunto il rifugio di Germano, perciò potevamo concederci una notte da soli, per cercare di metabolizzare le perdite subite in quel maledetto giorno. Abbiamo trovato un bed & breakfast isolato, perfetto per riposare. Dopo aver appurato che non ci fossero altri banditi (o Gialli, non si sa mai), nella zona, ci siamo sistemati al secondo piano, quello col le camere un tempo riservate ai clienti. Anche il B&B era stato ripulito in settimane e settimane di anarchia e disperazione, tuttavia nel seminterrato abbiamo trovato una cassa di sottaceti fatti in casa, ancora commestibili, e una doppietta Webley & Scott nascosta sotto in un grosso armadio polveroso. Cristina ha preso l'arma e nessuno ha osato protestare. Non era certo la giornata adatta per polemizzare con lei.
Quando tutti erano già andati a dormire io e Santini ci siamo trattenuti nella rustica hall al pianterreno, in compagnia di una mezza bottiglia di whiskey rinvenuta dietro il bancone, insieme alle foto di quelli che dovevano essere gli ex proprietari della struttura.
Non abbiamo rivangato le morti di Luigi e di Max. Santini mi ha parlato di quando lavorava come bibliotecario, a Milano, e quindi siamo finiti a disquisire di libri e scrittori. È stato tanto liberatorio quanto alienante: un tuffo nel passato, così intenso che alla fine avevamo entrambi le lacrime agli occhi.
L'abbiamo vista solo la mattina dopo, prima di partire: una grossa croce di legno a malapena nascosta dai meli striminziti, nel frutteto a una cinquantina di metri dal B&B. Visto che la curiosità è una peculiarità che fatichiamo a scrollarci di dosso, abbiamo deciso di dare un'occhiata. La croce, niente più che due assi di legno legate col fil di ferro, era piantata ai margini di una fossa profonda qualche metro, scavata forse con una piccola ruspa che comunque non si vedeva da nessuna parte.
Sul fondo c'erano cadaveri rinsecchiti, conservati dalle temperature gelide. Ne ho contati una dozzina. Difficile distinguere tra uomini e donne. La pelle, tirata sulle ossa, era di un malsano colore a metà tra i giallo e il grigio. Ciascuna salma aveva un paletto conficcato nel petto. Alcuni erano cunei di legno, altre asticelle rubate da qualche staccionata.
«Il tuo amico Hell sul suo blog parla di stregheria, dico bene?», mi ha chiesto Santini, senza staccare gli occhi dalla fossa comune. «Beh, a quanto pare anche i vampiri stanno tornando di moda.»
So cosa intendeva dire. I pochi abitanti dell'Irlanda stanno regredendo a un'oscurantismo medioevale d'altri tempi. Lo dimostrano i ragazzini selvaggi che ci hanno attaccato, ma anche le pratiche brutali di cui abbiamo visto i resti: le impiccagioni, gli impalamenti di Gialli, le pire funebri.
Valenziano, alla guida, ci ha promesso di portarci a destinazione entro un paio d'ore al massimo. Con la Volvo la nostra marcia infernale si trasformava in una comoda passeggiata. Se solo avessimo trovato un veicolo funzionante in anticipo, Luigi e Max sarebbero ancora con noi. Non riesco a togliermi questo pensiero dalla testa.
Mi scuserete se da qui in poi non vi citerò più i nomi esatti di strade, città e paesi. Ho già scritto troppi riferimenti, e di certo non è un bene dare ai malintenzionati i mezzi per localizzarci. Vi basti sapere che il resto del viaggio è stato tranquillo, quasi monotono. L'alternarsi del verde nulla irlandese e di auto abbandonate a intervalli quasi regolari era comunque un'alternativa preferibile a eventuali predoni pronti a scuoiarci.
Abbiamo perfino acceso l'autoradio, captando a fatica il segnale di un'emittente britannica, la BBC Radio Merseyside di Liverpool. Una speaker dal tono algido stava leggendo una serie di disposizioni riguardanti i buoni pasto in distribuzione nei distretti attigui alla nuova capitale inglese. Dopo un po' hanno trasmesso uno spot che invitava “gli uomini abili” ad arruolarsi nel British Army, che, a quanto ho capito, sta nazionalizzando diverse fabbriche di prima necessità. Quindi il notiziario è stato sostituito da uno special musicale sugli Yellow Fab Four, un gruppo di musicisti mentecatti che scrive e suona cover dei Beatles in chiave post-pandemica. Di certo i sudditi di sua maestà non hanno perso il senso dell'umorismo. Cristina ci ha fatto notare che il governo Cameron ha trasformato un simbolo di controinformazione anti-regime, ossia il poster dei Beatles “ingialliti”, in un'icona pop contemporanea. Forse quell'informazione doveva causarmi sdegno, invece ho provato un certo senso di stima per quei bastardi che avevano salvato la loro patria, e anche l'industria della musica.
Certo, ci sarebbe quella faccenda del prione Samas e dei “vampiri gialli”, ma credo che al momento non me ne importi più un fico secco, così come non m'importa sapere che succede in Russia, Cina o perfino in Australia. Questo fottuto niente fatto di verde e di bianco-neve è il luogo perfetto per annullare la coscienza.
Germano ci aspettava sull'unica strada che porta al suo rifugio. Non a braccia aperte, bensì col fucile in mano. Tra parentesi, tutti gli altri continuano a chiamarlo Hell, sarà l'abitudine o un po' di diffidenza, chissà. Non avendo una data precisa riguardo al nostro arrivo si è affidato ai due cani che vagabondano poco fuori questo paesino abbandonato. Appena la Volvo è sbucata in fondo alla strada principale le bestiole hanno iniziato a latrare, e lui si è presentato a darci il benvenuto.
Pensate un po': io ed Germano ci siamo frequentati per anni via blog, ma non ci eravamo mai incontrati di persona. La fine del mondo si è infile rivelata l'occasione migliore per ovviare a questa mancanza. L'imbarazzo nel salutarci ha fatto trapelare il mio vecchio carattere da orso, ma alla fine credo che con lui mi troverò bene, anche se ci metterà un po' a sopportare l'idea di avere altre persone tra i piedi. Isolarsi a lungo fa scattare certi meccanismi mentali che risalgono al nostro ancestrale passato da uomini delle caverne.
Non vi saprei dire se Germano è come me lo aspettavo, ma di certo si è rivelato più cortese del previsto. Ok, non fraintendete: non è che lo immaginavo stronzo, ma nemmeno poi così desideroso di compagnia. Invece ci ha aperto le porte del suo regno, come un vero padrone di casa, e ci ha presentato la sua signora.
Un tempo era un'attrice, di quelle che la stampa definiva “in rapida ascesa”. Conserva ancora l'antica bellezza, a dispetto delle peripezie e del pancione. «È di sette mesi», ci ha spiegato Germano, durante le presentazioni. Zooey è gentile, persino un po' timida. O forse sono io che mi sono troppo abituato a Cristina e ai suoi modi di fare. Insieme a loro c'è una ragazza, Maeve. A quanto pare è scampata a un attacco di predoni, a qualche chilometro da qui. Germano l'ha trovata e l'ha portata in salvo. I suoi compagni purtroppo non hanno avuto la stessa fortuna. Lei ha circa vent'anni ed è una tipica rossa irlandese. Al momento ha un febbrone, forse anche qualche infezione. A quanto pare ha rischiato l'assideramento. Tuttavia i pochi antibiotici ad ampio spettro che si porta appresso Santini dovrebbero aiutarla a guarire. Non so perché ma mi sono subito sentito molto sensibile alle condizioni di Maeve.
I nostri nuovi amici ci hanno addirittura fatto la festa. In senso buono, non temete. Abbiamo un intero seppur piccolo paese a nostra completa disposizione. Per il nostro arrivo abbiamo riaperto i battenti di una locanda in stile antico, forse l'unica attrattiva turistica del luogo. Ci siamo concessi un pranzo tanto abbondante come non mi capitava da mesi. C'è stato anche il rito del pane e del sale e a nessuno è sembrato strano, non dopo ciò che abbiamo visto strada facenda.
Questo è il terzo giorno di permanenza a ***. Germano mi ha mostrato una casa in cui c'è un'ottima postazione informatica, con tanto di modem satellitare ancora funzionante. «Puoi sistemarti qui, almeno per il momento.» Così mi ha detto e così ho fatto. Vi scrivo da un vecchio Sony Vaio, sfruttando un piccolo generatore fotovoltaico che Harmke mi ha aiutato a montare ieri sul tetto. C'è altra roba del genere che aspetta solo un po' di manutenzione, compresi alcuni generatori a benzina che utilizziamo con parsimonia.
Fuori nevica. Temo che a breve le strade saranno impraticabili, ma tanto non abbiamo intenzione di muoverci, non nell'immediato. Maeve migliora. La febbre è calata e le ferite stanno lentamente guarendo. Per quelle psicologiche, beh, c'è solo da aspettare. Ieri Germano mi ha detto che un domani potrei ospitarla qui, se non mi dispiace l'idea di avere compagnia. Non che in paese ci si senta soli. Ci siamo sistemati più o meno in centro, bloccando le vie d'accesso con alcune carcasse d'auto. Non delle vere e proprio barriere, ma utili a ritardare eventuali predoni. C'è anche qualche preoccupazione per la gravidanza di Zooey ma sia il suo compagno che Cristina continuano a ripetere che, quando sarà il momento, sapranno gestire la cosa.
Stamattina Santini mi ha portato un libro che ha trovato in una delle case che sta esplorando. Manco a dirlo si tratta di The lost world di Conan Doyle. È il titolo, più che il romanzo, a fare per noi. A pensarci bene è pur sempre meglio di Brave new world, che invece si adatterebbe ai nostri vicini lontanissimi, gli inglesi.
Germano mi ha chiesto di non aggiornare più questo blog. In ogni post rischierei di dare indicazioni utili a eventuali malintenzionati. Capisco che probabilmente ha ragione. Senza parlare della scarsità delle nostre riserve elettriche. Così queste che vi scrivo sono le mie ultime parole. Almeno per adesso. Forse un domani, quando e se ricostruiremo una piccola comunità più sicura e efficiente, ci sarà il tempo e il modo per tornare a comportarsi da persone civili. Non so se vi aspettavate una fine più epica o drammatica, ma questa è vita vera, non un romanzo.
Ricordo una frase di James Ballard che ai tempi mi colpì molto: il futuro è un posto pericoloso da frequentare, fittamente minato e con la tendenza ad azzannarti i polpacci a tradimento mentre ti ci inoltri.
Ma noi ci saremo ancora per cercare di viverlo e di cambiarlo.
A volte tanto basta.
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Ricordo che il mio SB è strettamente legato a quello di Cristina Riccione. Per scoprire alcuni retroscena delle vicende narrate in questi capitoli, date un'occhiata anche al suo blog.
Nel presente capitolo la mia strada si incrocia con quella di Hell, che ringrazio per la preziosissima opera di coordinamento e collaborazione di queste ultime settimane!
Survival blog: elenco dei capitoli precedenti e degli altri contenuti.