Mondo Senza Fine è un ritorno al Medioevo due secoli dopo la costruzione della cattedrale gotica di Kingsbridge.

Creato il 05 gennaio 2011 da Rstp
È il 1327. Il giorno di Ognissanti, quattro bambini si allontanano di nascosto dal priorato di Kingsbridge mentre sono in corso i festeggiamenti. Il gruppo, composto da un piccolo genio, un bulletto, una ladruncola e una ragazzina dalle grandi ambizioni, assiste per caso nella foresta all'uccisione di due uomini.
Da allora le vite di questi ragazzi saranno indissolubilmente legate tra loro e, una volta adulti, conosceranno amore, avidità, ambizione e vendetta. Vivranno momenti di prosperità e carestia, malattia e guerra. Dovranno fronteggiare la più terribile epidemia di tutti i tempi: la peste.
Uno di loro viaggerà per il mondo per poi tornare a casa, un altro diventerà un nobiluomo potente e corrotto, una ragazza inseguirà l'amore impossibile e un'altra sfiderà il potere della Chiesa.
Ma su ciascuno resterà l'ombra di quell'inspiegabile omicidio di cui sono stati testimoni in quel fatidico giorno della loro infanzia.
Da quasi vent'anni il romanzo I Pilastri della terra continua ad appassionare milioni di lettori nel mondo, con un successo senza precedenti.
Oggi Ken Follett ritorna al Medioevo ambientando Mondo senni fine due secoli dopo la costruzione della cattedrale gotica di Kingsbridge, sullo sfondo di un lento ma inesorabile mutamento - che rivoluzionerà le arti quanto le scienze - in cui ci si lascia alle spalle il buio e si cominciano a intravedere i primi bagliori di una nuova epoca. Mondo senza fine segna il grandioso ritorno di uno dei maestri della narrativa del nostro tempo.
Gwenda aveva otto anni, ma il buio non le faceva paura.
Quando aprì gli occhi non vide nulla, però non fu questo a spaventarla. Sapeva di trovarsi al priorato di Kingsbridge, nel lungo edificio di pietra chiamato ospitale, stesa a terra su un giaciglio di paglia. Accanto a lei era sdraiata la ma­dre; dal tiepido profumo, Gwenda comprese che stava allat­tando il piccolo, ancora senza nome. Vicino alla mamma c'erano il papà e poi il fratello maggiore Philemon, di dodi­ci anni.
L'ospitale era affollato, e benché la bambina non riuscisse a vedere le altre famiglie coricate sul pavimento, stipate co­me pecore in un recinto, percepiva l'odore acre dei loro corpi caldi. All'alba sarebbe stato Ognissanti, che quell'anno cade­va di domenica e quindi era un giorno particolarmente be­nedetto. La sera che lo precedeva, la vigilia, era un momento pericoloso in cui gli spiriti maligni circolavano liberamente. Al pari della famiglia di Gwenda, centinaia di persone erano accorse a Kingsbridge dai villaggi vicini per trascorrere la fé sta entro i confini consacrati del priorato e assistere all'alba ni servizio religioso.
Come tutte le persone di buonsenso, Gwenda temeva gli spiriti maligni, ma ancor più la terrorizzava quel che avreb­be dovuto fare durante la funzione.
Scrutò nell'oscurità cercando di non pensarci. Sapeva che nella parete di fronte a lei c'era una finestra ad arco priva di Vetri - solo gli edifici più importanti avevano vetri alle finestre -, con appena una tenda di lino a riparare dalla fredda aria autunnale. Tuttavia non scorse alcun bagliore grigia­stro nel punto in cui doveva trovarsi l'apertura, e se ne ral­legrò. Sperava che il mattino tardasse ancora.
Non c'era nulla da vedere, ma molto da ascoltare.
La pa­glia che copriva il pavimento frusciava in continuazione, ogni volta che la gente si agitava o cambiava posizione men­tre dormiva. Un bimbo si mise a piangere, forse svegliato da un brutto sogno, e fu subito tranquillizzato da un affettuoso bisbiglio. Di tanto in tanto qualcuno farfugliava una mezza parola nel sonno. Da qualche parte arrivarono i rumori di due persone che stavano facendo le cose che tutti i genitori facevano ma di cui non parlavano mai, quello che Gwenda chiamava "grugnire", perché non sapeva come definirlo al­trimenti.

Molto presto scorse una luce. Dalla porta a est del lungo stanzone, dietro l'altare, entrò un monaco con una candela in mano; l'accostò a un accenditoio posto lì accanto e con quello fece ardere le lampade alle pareti. Ogni volta la sua lunga ombra si proiettava sul muro come un riflesso, men­tre l'accenditoio incrociava la propria sullo stoppino del lume.
La luce crescente illuminò le file di corpi indistinti raggo­mitolati a terra, avvolti in mantelli di lana grezza o addos­sati ai vicini in cerca di calore. I malati occupavano i paglie­ricci accanto all'altare per trarre il massimo beneficio dalla sacralità del luogo. Sul lato opposto, una scala conduceva al piano superiore, dove erano alloggiati i nobili in visita: in quella occasione, il conte di Shiring con alcuni, membri della sua famiglia.
Il monaco si sporse verso Gwenda per accendere il lume sopra la sua testa e sorrise nell'incrociarne lo sguardo. Lei ne studiò il viso alla tremula luce e riconobbe in lui frate Godwyn. Era giovane e bello, e la notte precedente aveva rivolto a Philemon parole gentili.
Vicino a Gwenda c'era un'altra famiglia del suo villaggio: Samuel, un prospero contadino con un vasto podere, la mo­glie e i due figli, il più piccolo dei quali, Wulfric, era un bambino pestifero di sei anni, convinto che lanciare ghian­de alle femmine e poi darsela a gambe fosse la cosa più di­vertente del mondo.
La famiglia di Gwenda non era ricca. Il padre non posse­deva terre e faceva il bracciante per chiunque fosse disposto a pagarlo. Il lavoro non mancava mai durante l'estate, ma dopo il raccolto, quando cominciavano i primi freddi, spes­so pativano la fame.
Per questo lei era costretta a rubare.
Immaginò di essere sorpresa in flagrante: una mano forte l'afferrava in una morsa, mentre lei si dibatteva disperata­mente; una voce profonda e crudele diceva: "Bene, bene, ec­co una ladruncola"; il dolore e l'umiliazione delle frustate, e poi la cosa peggiore, la straziante sofferenza di vedersi moz­zare la mano.
Suo padre aveva già subito quella punizione: il braccio si­nistro terminava in un orrendo moncherino rattrappito. Se la cavava bene con una mano sola, riusciva a maneggiare la pa­la, a sellare un cavallo e perfino a costruire una rete per cattu­rare gli uccelli, e tuttavia era sempre l'ultimo bracciante a ve­nire ingaggiato in primavera e il primo a essere lasciato a casa in autunno. Non poteva cercare lavoro fuori del villag­gio, perché l'amputazione lo marchiava come ladro e quindi nessuno era disposto ad assumerlo. Negli spostamenti, co­priva il moncherino con un guanto imbottito per non essere scansato da ogni estraneo che incontrava, ma l'espediente non ingannava a lungo le persone.
Gwenda non aveva assistito alla punizione del padre, su­bita prima che lei nascesse, ma se l'era spesso immaginata, e in quel momento non riusciva a smettere di pensare che la stessa cosa sarebbe accaduta a lei. Nella mente vedeva la la­ma della scure abbattersi sul suo polso, tranciando pelle e ossa fino a recidere per sempre la mano dal braccio. Dovette serrare i denti per impedirsi di gridare a squarciagola.
I pellegrini cominciavano ad alzarsi; si stiravano, sbadi­gliavano, si stropicciavano gli occhi. Gwenda si mise in pie­di e si rassettò i vestiti. Aveva ereditato tutti gli indumenti dal fratello maggiore: sopra una camiciola di lana lunga fi-
no alle ginocchia portava una tunica fermata in vita da un cordone di canapa; i calzari, un tempo allacciati, avevano gli occhielli ormai laceri e le stringhe si erano consumate, per cui li legava con paglia intrecciata. Infilò i capelli in un berretto di code di scoiattolo e fu pronta.
Incrociò lo sguardo del padre, che le indicò furtivamente una famiglia: una coppia di mezza età con due figli poco più grandi di lei. L'uomo, basso e magro, aveva la barba rossa e ricciuta. Stava affibbiandosi la spada, il che lo identificava come armigero o cavaliere: alla gente comune, infatti, non era concesso portare la spada. La moglie era una donna esile e accigliata, dai modi bruschi.
Mentre Gwenda li studiava, frate Godwyn li salutò ri­spettosamente con un cenno del capo. «Buongiorno, sir Ge­rald, lady Maud.»
Gwenda vide che cosa aveva attirato l'attenzione del ge­nitore: la borsa che sir Gerald teneva appesa alla cintola con una cinghietta di cuoio. Una borsa rigonfia che poteva con­tenere parecchie centinaia di sottili penny d'argento e mo­netine da mezzo e da un quarto di penny, i soldi che circola­vano in Inghilterra: una quantità di denaro che suo padre avrebbe guadagnato in un anno, se fosse riuscito a trovare lavoro, sufficiente per sfamare tutta la famiglia fino all'ara­tura di primavera. Forse quella borsa conteneva addirittura monete d'oro straniere, fiorini fiorentini o ducati veneziani.
Gwenda portava al collo un piccolo coltello in un fodero di legno. Grazie alla lama affilata avrebbe potuto tagliare con un colpo deciso la cinghietta e far cadere la borsa nella sua mano, a meno che sir Gerald, avvertendo qualcosa di strano, non l'avesse bloccata prima...
Godwyn alzò la voce per sovrastare il brusio. «Per amore di Cristo, che ci insegna la carità, la colazione sarà servita dopo la messa di Ognissanti» disse. «Per intanto, è possibile dissetarsi all'acqua pura della fontana nel cortile. Ricordate, prego, di usare le latrine esterne: non si orina qui dentro!»
Frati e suore erano rigorosi in fatto di pulizia. La sera pre­cedente, Godwyn aveva sorpreso un bambino di sei anni mentre faceva pipì in un angolo e lo aveva buttato fuori con tutta la famiglia. Senza un penny per pagarsi la taverna, sa­rebbero stati costretti a passare la fredda notte di ottobre sul pavimento di pietra del portico nord della cattedrale. An­che gli animali erano banditi. Hop, il cane a tre zampe di Gwenda, era stato scacciato. La bambina si chiese dove a-vesse trascorso la notte.
Quando tutti i lumi furono accesi, Godwyn aprì il massic­cio portone di legno. Gwenda sentì l'aria pungente della notte sulle orecchie e sulla punta del naso. Gli ospiti si strin­sero nei mantelli e cominciarono a defluire. Quando sir Ge­rald e i familiari si incamminarono, il papà e la mamma si misero in fila dietro di loro, seguiti da Gwenda e Philemon.
Fino ad allora era stato Philemon a rubare, ma il giorno prima, al mercato di Kingsbridge, aveva rischiato di essere acciuffato. Si era lasciato sfuggire di mano un vasetto di co­stoso olio che aveva arraffato dal chiosco di un mercante ita­liano; per fortuna non si era rotto nel cadere, però tutti aveva­no visto. Il ragazzino se l'era cavata sostenendo di averlo accidentalmente urtato sul banco.
Philemon, fino a poco tempo prima basso e poco appari­scente come Gwenda, nel corso dell'ultimo anno era cresciu­to parecchio, la voce si era fatta profonda e lui si muoveva in modo goffo e maldestro, come se non riuscisse ad abituarsi alle nuove dimensioni del suo corpo. La sera precedente, do­po l'incidente del vasetto d'olio, il papà aveva dichiarato che Philemon era ormai troppo grande per rubare cose di valore, e quindi da quel momento sarebbe stato compito di Gwenda farlo.
Era per questo che lei aveva dormito così male, quella notte.
Il vero nome di Philemon era Holger. All'età di dieci anni aveva deciso di farsi frate, per cui aveva annunciato a tutti che da quel momento si sarebbe chiamato Philemon, un no­me molto più adatto a un religioso. Stranamente la maggior parte delle persone si era mostrata condiscendente verso quel suo desiderio, mentre i genitori avevano continuato a chiamarlo Holger.
Oltre la porta si profilarono due file di monache tremanti che reggevano torce accese per illuminare la strada che dal­l'ospitale conduceva al grande portale ovest della cattedrale di Kingsbridge. Le ombre vacillavano intorno alle torce, co­me se gli spiriti e i demoni della notte danzassero lì vicino, tenuti a distanza solo dalla santità delle monache.
Gwenda si aspettava di vedere Hop appena fuori, invece il cagnolino non c'era. Forse aveva trovato un posto al caldo dove passare la notte. Mentre avanzavano verso la chiesa, il papà fece in modo di stare alle calcagna di sir Gerald. Qual­cuno, da dietro, le tirò con forza i capelli e Gwenda gridò, te­mendo che si trattasse di uno spirito maligno, ma voltandosi vide Wulfric, che con una risata schizzò indietro per sfuggi­re alle sue mani.
«Stai bravo!» lo rimbrottò il padre, allungandogli uno scappellotto, e il bambino scoppiò a piangere.
L'immensa chiesa era una forma indistinta che torreggiava sulla folla accalcata. Soltanto le parti inferiori erano chiara­mente visibili, archi e montanti delineati dalla tremula luce arancione e rossa delle torce. La processione rallentò nell'av-vicinarsi all'ingresso della cattedrale. Gwenda vide arrivare dalla direzione opposta una fiumana di gente proveniente dalla città. Erano centinaia, pensò, se non migliaia, anche se non aveva un'idea precisa di quante persone ci volessero per fare un migliaio, perché non sapeva contare fino a mille.
La folla attraversò lentamente il vestibolo. La luce inquie­ta delle torce cadeva sulle figure scolpite lungo i muri, fa­cendole danzare all'impazzata. Al livello inferiore vi erano demoni e mostri. Gwenda guardò con apprensione draghi e grifi, un orso dalla testa di uomo, un cane con due corpi e un solo muso. Alcuni demoni lottavano con esseri umani: un diavolo metteva un cappio al collo di un uomo, un mo­stro dai tratti di volpe trascinava una donna per i capelli, un'aquila con le mani artigliava un uomo nudo. Al di sopra di queste scene, una fila di santi rappresentati al riparo di un baldacchino e poi, ancora più in alto, gli apostoli assisi in trono; infine, nell'arco sovrastante il portale principale, san Pietro con la chiave e san Paolo con una pergamena al­zavano lo sguardo adorante su Gesù Cristo.
Gwenda sapeva che Gesù le diceva di non peccare se non voleva subire il tormento dei diavoli, ma gli esseri umani la terrorizzavano ben di più. Se non fosse riuscita a rubare la borsa di sir Gerald, avrebbe assaggiato la frusta del padre e, quel che era peggio, alla famiglia non sarebbe restato che nutrirsi di zuppa di ghiande. Lei e Philemon avrebbero pa­tito la fame per intere settimane, la mamma avrebbe perso il latte e il piccolo sarebbe morto come gli ultimi due fratelli­ni. Il papà sarebbe scomparso per giorni, senza altro da mettere in pentola al suo ritorno che uno scarno airone o un paio di scoiattoli. La fame era ancora peggio delle frustate: faceva soffrire più a lungo.
Fin da piccola le era stato insegnato a rubacchiare: una mela da un banco, un uovo appena deposto dalla gallina di un vicino, un coltello distrattamente lasciato cadere a terra da un ubriaco in una taverna. Ma col denaro era tutt'altra cosa. Se fosse stata sorpresa a rubare a sir Gerald, non sa­rebbe servito a nulla scoppiare in lacrime e sperare di essere trattata da piccola monella, come una volta le era riuscito dopo avere sottratto un paio di calzari di cuoio buono a una suora dal cuore tenero. Tagliare il legaccio della borsa di un cavaliere era non un peccatuccio da bambini, ma un vero e proprio reato da adulti, e lei sarebbe stata trattata di conse­guenza.
Si sforzò di non pensarci. Era piccola, agile e svelta, e a-vrebbe preso la borsa senza farsene accorgere, come un fan­tasma; a patto che fosse riuscita a non tremare.
La grande chiesa era già gremita. Nelle navate laterali mo­naci incappucciati reggevano torce che proiettavano balugi-nii rossastri. Gli imponenti pilastri si innalzavano verso l'o­scurità. Gwenda si tenne vicina a sir Gerald mentre la folla si accalcava verso l'altare. Il cavaliere dalla barba rossa e la mo­glie smilza non si accorsero di lei, e i due figli non le dedica­rono più attenzione di quanta ne dedicassero ai muri di pie­tra della cattedrale. Gwenda perse di vista i familiari, rimasti indietro.
La navata centrale si riempì in fretta. La ragazzina non aveva mai visto tanta gente tutta insieme: più che in un giorno di mercato sul prato della cattedrale. Le persone si salutavano, felici di trovarsi in quel luogo sacro al riparo dagli spiriti maligni, e il suono di tutte le conversazioni crebbe fino a diventare una specie di sordo boato.
Al rintocco della campana, scese il silenzio.
Sir Gerald era accanto a una famiglia di cittadini. Indossa­vano tutti mantelli di tessuto fine, quindi probabilmente era­no ricchi mercanti di lana. Vicino al cavaliere c'era una bam­bina sui dieci anni. Gwenda si mise alle loro spalle. Cercò di passare inosservata ma, con suo grande sgomento, la bambi­na si voltò per rivolgerle un sorriso rassicurante, come a dir­le di non avere paura.
I frati che circondavano la folla spensero le torce a una a una, finché la grande chiesa fu immersa nella più completa oscurità.
Gwenda si chiese se la bambina ricca si sarebbe ricordata di lei in seguito. Non le aveva soltanto lanciato un'occhiata distratta per poi ignorarla, come in genere facevano tutti. L'aveva notata, forse avvertendo il suo timore, e per quello le aveva sorriso con aria amichevole. Ma nella cattedrale c'e­rano centinaia di bambini. Nella luce fioca, non poteva es­sersi fatta un'impressione molto chiara di lei, cercò di rassi­curarsi Gwenda.
Invisibile al buio, mosse un passo avanti per insinuarsi con cautela tra le due figure. Sentì la morbida lana del mantello della bambina da un lato e il tessuto più ruvido della vecchia sopravveste del cavaliere dall'altro. Era l'occasione giusta per puntare alla borsa.
Introdusse la mano nella scollatura della tunica e sfilò dal fodero il piccolo coltello.
II silenzio fu interrotto da un urlo raccapricciante. Gwenda se lo aspettava, la mamma le aveva spiegato che cosa sarebbe accaduto durante la funzione, eppure ne fu sconvolta. Sem­brava il grido di una persona sotto tortura.
Seguì un suono stridulo e ripetuto, come se qualcuno bat­tesse su un piatto metallico. Poi altri rumori: pianti, risate folli, un corno da caccia, un crepitio, versi di animali, una campana fessa. Nella congregazione, un bambino scoppiò a
piangere, imitato ben presto da altri. Alcuni adulti ridevano nervosamente: tutti sapevano che quei rumori erano prodot­ti dai monaci, e tuttavia la cacofonia risultava agghiacciante.
Non era il momento di prendere la borsa, pensò Gwenda spaventata. Tutti erano vigili, tesi. Il cavaliere avrebbe perce­pito anche il minimo sfioramento.
Il rumore diabolico si intensificò finché non si inserì un nuovo suono: una musica. Sul principio era così impercetti­bile che Gwenda pensò di averla immaginata, poi pian pia­no prese vigore. Le suore intonarono un canto. Gwenda sentì il corpo entrare in tensione. Il momento era ormai vici­no. Muovendosi come un fantasma, leggera come l'aria, si voltò indietro verso sir Gerald.
Sapeva esattamente che cosa indossava il cavaliere: una veste di lana pesante fermata in vita da un'ampia cintura borchiata. La borsa era legata alla cintura con una cinghietta di cuoio. Sulla veste portava una sopravveste ricamata, co­stosa ma logora, con bottoni d'osso ingiallito sul petto. Ne aveva allacciato solo qualcuno, forse impigrito dalla sonno­lenza, oppure perché il tratto dall'ospitale alla chiesa era molto breve.
Con la massima delicatezza, Gwenda appoggiò le piccole dita sulla sopravveste. Immaginò che la mano fosse un ragno, talmente leggero da risultare inawertibile. Fece avanzare la mano ragno e, trovata l'apertura, la insinuò sotto l'orlo della sopravveste, fino alla pesante cintura, sfiorando la borsa.
Il pandemonio andò attenuandosi mentre la musica cre­sceva di volume. Un mormorio riverente salì dalle prime fi­le di fedeli. Gwenda non riusciva a vedere nulla, ma sapeva che sull'altare era stata accesa una lampada per illuminare un reliquiario, una teca di avorio e oro riccamente intarsia­ta, contenente le ossa di sant'Adolfo, che non era lì quando le luci si erano spente. La folla avanzò perché tutti cercava­no di avvicinarsi ai sacri resti. Premuta tra sir Gerald e l'uo­mo che gli stava davanti, Gwenda sollevò la mano destra e appoggiò la lama del coltello alla cinghietta della borsa.
Il cuoio, resistente, non cedette al primo tentativo. La bambina usò il coltello come un seghetto, sperando con tutta se stessa che sir Gerald fosse troppo interessato alla scena in atto sull'altare per accorgersi di quanto stava accadendo sotto il suo naso. Alzò gli occhi e si rese conto di cominciare a vedere il profilo della gente intorno a lei: frati e suore sta­vano accendendo le candele. La luce sarebbe presto diven­tata più intensa. Non c'era tempo da perdere.
Gwenda diede un colpo secco con il coltello e sentì la cin-ghietta cedere. Sir Gerald emise una sorta di grugnito: aveva sentito qualcosa oppure quel verso era la sua reazione allo spettacolo che si svolgeva sull'altare? La borsa cadde, atter­rando sulla mano di Gwenda, ma era talmente grossa che lei non riuscì ad afferrarla bene. In un attimo di terrore pensò che le sarebbe scivolata a terra, fra i piedi delle persone incu­ranti, allora chiuse con forza il pugno per trattenerla.
Avvertì un lampo di sollievo euforico: l'aveva presa.
La situazione, però, era ancora molto pericolosa. Il cuore le batteva così forte che tutti, le sembrava, avrebbero potuto sentirlo. Si voltò in fretta per dare la schiena al cavaliere. Nello stesso istante infilò la pesante borsa nello scollo della tunica. Si rese conto che quel rigonfiamento al di sopra della cintola, prominente come il ventre di un vecchio, non pote­va passare inosservato. Spostò la borsa sul fianco, per co­prirla in parte con il braccio. Con la luce più forte sarebbe stata comunque visibile, ma non aveva altro posto in cui na­sconderla.
Rimise il coltello nel fodero. Doveva allontanarsi in fretta, prima che sir Gerald si accorgesse del furto, ma la ressa dei fedeli, che l'aveva aiutata a prendere la borsa senza essere notata, a quel punto ostacolava la sua fuga. Tentò di retroce­dere, di aprirsi un varco tra i corpi dietro di lei, ma tutti spin­gevano avanti per cercare di guardare le ossa del santo. Era intrappolata, impossibilitata a muoversi, proprio davanti al­l'uomo che aveva derubato.
Una voce all'orecchio le disse: «Stai bene?».
Era la bambina ricca. Gwenda si sforzò di soffocare il pa­nico. Non doveva farsi notare. Una bambina più grande pronta ad aiutarla era l'ultima cosa di cui aveva bisogno. Non rispose.
«Attenti!» disse la bambina ai vicini. «State schiacciando questa piccolina.»
Gwenda ebbe voglia di gridare. Quell'atteggiamento pre­muroso avrebbe finito per farle mozzare la mano.
Nel tentativo disperato di allontanarsi, spinse con forza l'uomo davanti a lei, con l'unico risultato di retrocedere. Riuscì soltanto ad attirare l'attenzione di sir Gerald.
«Non riesci a vedere niente da lì in basso, vero?» chiese la sua vittima in tono gentile e, con grande orrore di Gwenda, l'afferrò sotto le braccia per sollevarla.
Si sentì impotente. La mano dell'uomo sotto l'ascella quasi sfiorava la borsa. Gwenda era rivolta in avanti, quindi lui po­teva vederle soltanto la nuca, e guardava al di sopra della calca l'altare intorno al quale frati e suore stavano accenden­do altre candele mentre cantavano per il santo morto da tan­to tempo. Sullo sfondo, una debole luce apparve oltre il gran­de rosone sul lato est: stava sorgendo il sole, che avrebbe scacciato tutti gli spiriti maligni. Il frastuono era cessato e i canti risuonarono con più forza.
Un frate alto e di bell'aspetto salì all'altare, e Gwenda lo riconobbe: era Anthony, il priore di Kingsbridge. Sollevando le mani in un gesto benedicente, disse a voce alta: «E così, ancora una volta, per grazia di Cristo Gesù, il male e le tene­bre di questo mondo vengono scacciati dall'armonia e dalla luce della santa Chiesa di Dio».
I fedeli esplosero in un urlo di gioia, poi cominciarono a rilassarsi. Il momento culminante della cerimonia era pas­sato. Gwenda si dimenò, sir Gerald colse il messaggio e la rimise a terra. Tenendo il viso voltato per non farsi vedere, lei lo superò per aprirsi un varco verso la parte posteriore della chiesa. La folla non si accalcava più per guardare l'al­tare, quindi la bambina riuscì a farsi strada tra i corpi. Più si allontanava, più diventava facile, finché finalmente si trovò vicino al grande portale ovest e scorse la sua famiglia.
II padre la scrutò pieno di aspettativa, pronto a montare su tutte le furie se lei non fosse riuscita nell'intento. Gwenda estrasse la borsa dalla tunica e gliela lanciò, ben lieta di libe­rarsene. Lui l'afferrò al volo, la girò lentamente e vi guardò
dentro. Un sorriso beato si dipinse sul viso. Poi passò la bor­sa alla madre, che si affrettò a nasconderla tra le pieghe della copertina in cui era avvolto il suo piccolo.
Quella terribile prova era finita, ma Gwenda correva an­cora dei rischi. «Una bambina ricca mi ha notato» disse, con­sapevole dell'acuto terrore nella propria voce.
Gli occhi piccoli e scuri del padre furono attraversati da un lampo di collera. «Ha visto quel che hai fatto?»
«No, ma ha detto agli altri di non schiacciarmi, e poi il ca­valiere mi ha sollevato per farmi vedere meglio.»
La mamma emise un cupo lamento.
«Dunque, ti ha visto in faccia» disse il papà.
«Ho cercato di tenere la testa voltata.»
«Comunque, è meglio evitare che ti incontri di nuovo. Non ci torniamo, all'ospitale dei frati. Andiamo alla taverna per la colazione.»
«Non riusciremo a nasconderci per tutto il giorno» os­servò la mamma.
«No, ma possiamo confonderci tra la folla.»
Gwenda cominciò a sentirsi meglio. Il papà sembrava con­vinto che non ci fosse un pericolo reale, e comunque la rassi­curava che a quel punto fosse lui a decidere, sollevandola dal peso della responsabilità.
«E poi» continuò lui «voglio pane e carne, non il porridge acquoso dei frati. Me lo posso permettere, adesso!»
Uscirono dalla chiesa. Il cielo era soffuso del chiarore per­laceo dell'alba. Gwenda voleva prendere la mamma per ma­no, ma il piccolo si mise a piangere e la madre si distrasse. Poi Gwenda vide un cagnolino senza una zampa, tutto bian­co con il muso nero, attraversare di corsa il recinto della cat­tedrale e venirle incontro con un familiare passo sbilenco.
«Hop!» gridò lei, e lo sollevò per abbracciarlo.

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