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Monia Gaita - Moniaspina

Da Ellisse


Monia Gaita - MoniaspinaChe nella poesia di Monia Gaita il ritmo musicale, la fonìa di insieme sia nello stesso tempo strumento e obbiettivo, elemento fàtico e misura per il fruitore, appare subito evidente, non solo fin dalla prima lettura in cui subito l'occhio si impiglia in accenti, ma anche dalla cura quasi maniacale (acribìa) delle note al testo, (un esempio: mòngolo: s.m. e agg., individuo appartenente ai Mongoli, popolazione dell'Asia centrale che ecc.). Per la verità sospetto che la cosa faccia parte del gioco, se non proprio come elemento straniante che riporta - in senso lato - alla sperimentazione, almeno nel senso che come ogni "musicista" Gaita aspira a dare indicazioni nette e autoriali al proprio "esecutore" (lettore), in modo che non si prenda troppe libertà (ecco perchè accennavo prima al fàtico). Perciò mi torna ciò che Gaita afferma in fondo al libro in una piccola intervista con Mario Fresa, suo prefatore: "Per me la poesia largheggia e si incrementa anche nell'impasto sinfonico di una partitura musicale invisibile ma presente. Ciò avviene, e con l'apposizione degli accenti acuti e gravi, e con un’accurata scelta lemmatica che eleva ogni parola a unità infungibile e necessaria. Il ritmo interiore echeggia nell’eiezione fonico-espressiva delle strofe e ad essa coerentemente si combina sotto l'egida del gioco elementare significante-significato-suono. La parola ha delle note ben precise, bisogna solo cercarle, dando loro flauti, voce e combustibile vitale."

Ecco quindi l'accentazione "ostinata" (tanto per rimanere nel campo semantico musicale), artificio (sia detto in senso classico) che tra le mie conoscenze mi rimanda a Silvia Comoglio (v. QUI), che però lo usa in maniera un pò meno affollata e contestualmente ad altri "segni". Ed ecco anche quella saturazione semantica a cui accennava la stessa Gaita più sopra. Infatti (e si torna alla puntualità delle note) le parole si fanno astratte e "distanti" l'una dall'altra, spesso varcando "i limiti della pura ineffabilità", dice Fresa nella prefazione, e sono d'accordo, con una selezione lessicale spesso ricercata, astratta e "rara". Che poi tutto ciò perda un pò in potenza connotativa, mi pare inevitabile. Acquistandone magari un' altra, di altro tipo.

E fin qui ci siamo. Bisogna aggiungere che il ritmo in musica non è tutto, e Gaita lo sa benissimo. Ecco perchè gli accenti poi a loro volta diventano chiodi che fissano le parole  a un supporto (sia detto - qui - in senso plastico, pittorico), ne fanno installazione, le portano alla rilevanza iconica che mi ricorda, tra l'altro e tra gli altri, qualcosa di Joseph Kosuth (e scusate l'azzardo)

Credo che Gaita abbia ben presente questo concetto, almeno a giudicare dalla sua dichiarazione di poetica,  in cui mi pare si faccia accenno  non tanto alle "cose", ai temi, alla narrazione ("la mia poesia non è facilmente comunicativa perchè per me la poesia non ha da comunicare... resta pur sempre Arte Assoluta"), quanto alle modalità manipolatorie, consce e inconsce ("...parto sempre da ricordi, esperienze in svolgimento, passate o immaginate possibili...Ma poiché ritengo che nel pensabile risieda e pulsi verità e sostanza, non distinguo tra oggettività e soggettività, ne mescolo le carte a piacimento, ne mangio a fette fate, brume e mondi")

Perciò ecco perchè in definitiva il lavoro di Monia Gaita mi sembra che debba essere considerato un interessante esempio di poesia "concettuale" pura, parecchio vicina alla nota definizione di Sol LeWitt ("Nell'arte concettuale l'idea o concetto è l'aspetto più importante dell'opera... L'idea diventa una macchina che crea l'arte."), poesia attraverso cui però Gaita, riservandosi un ampio margine di fede nella possibilità di "sgretolare il caos",  dipinge a larghe campiture barocche una sua vicenda e insieme un'idea personale della crisi moderna, che viaggia velocemente verso una Babele comunicativa di cui il linguaggio è il primo protagonista e la prima vittima.

Monia Gaita - Moniaspina - Edizioni L'Arca Felice, 2010


Morònidi
Làcrime d'òppio
di solitùdine,
su queste strade
opprèsse nel respiro.
Orba da tutt'e due gli òcchi
la speranza,
nella foltézza orsina
di péli di rammàrico.
Brùcia com’una fiamma ossìdrica
il passato,
adèsso che ti ho pèrso
per ottacòrdipane,
cime di Pinatubo,
di monchézza.
Nelle vocali mute del presènte,
déntro trincianti in filòni di metallo,
ancòra cérco
Morònidi di luce
I minimósca
Moltìplico per cinque
la speranza
nell'àcido perclòrico di dèfluo
delle strade.
Si disidràtano più di verdura
placche diftériche di "fórse".
Con pedalata rotónda
córrono desidèri.
Non pattuisce résa alcuna
l'illusióne,
óra che i minimósca di paura
sanno di muffatìccio
come stanza.
Su pentagrammi di volére,
frìvole di civétta,
le pèsche a pasta róssa
dei minuti
Vivaci come pòlka
Cercarti
déntro i gemèlli monocoriali vóci
della séra,
quando i moncóni di matita d'annoiato
tèngono in mòlle
lenticchie inoperanti.
Trovarmi pèrsa
nell'intonacatura lìscia dei tuoi òcchi
e accarezzarti i guanti in montóne rovesciato,
al fóndo di paiòlo,
delle labbra.
Dópo le arànce mòre
di qualche bàcio dalla saliva a pièghe,
con mòrso piccante
reagènti di paura
che dalla pluridattilìa dei sógni
tu pòssa uscire
per àbiti a pois
vivaci come pòlka:
disvolére
Tra megascale
Ferrata a ghiàccio d’impossìbile
la pace,
rimangono
sól0 pòche gócce di vino
di volére.
Umanità,
da sempre
nei giunti elàstici delle contraddiziòni
ad allargare
giri di mura alle percòsse,
òlio di sansa gréggio,
diédri,
òssido palladóso,
all'acrimònia.
Non mancheranno mai al male
scalatóri,
il giòco di stantuffi
cattivo di pagélla,
più crudo di raccónto,
delle fròdi,
la potestà genitoriale
deiscènte di legume,
dell'assurdo.
Ancóra tirerà su i màntici
la mòrte.
Tra megascale di rimónte,
con ali stése com'ossìfraga:
soprusi
Conflagro
Auméntano
i sémi di caiano delle vóci.
Con òcchi-camaleònte
ruòtano le illusiòni.
Potrei anche morire
nella cambusa di speranza di quest’óra
e batacchiare ulivi di corallo,
pomìferiradianti,
al desidèrio.
Si métte alle còstole dei tétti
il sóle,
sul crepitàcolo avanzante,
rìccio di pappardèlla,
dei trattóri.
Più d'una réte
m'avvìncola
l'anta distésa delle cose.
Conflagro in entusiasmo
di larghe damigiane

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