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Monika Grycko

Creato il 23 settembre 2010 da Fasterboy

Monika Grycko Milano – Dal 28 settembre al 26 ottobre 2010
Monika Grycko “Dall’animale all’uomo: una storia incredibile
Inaugurazione – Martedì, 28 settembre 2010 dalle ore 18 alle 22

GALLERIA BIANCA MARIA RIZZI

(Testo di Cecilia Maria di Bona) “Dall’animale all’uomo: una storia incredibile, ancora leggibile nel volto dell’uomo”

Nelle sue espressive sculture in levigata, lucente, opalescente ceramica, Monika Grycko sembra volerci narrare o forse, più precisamente, porre sotto gli occhi le implicazioni inquietanti (per gli individui più fragili) degli sforzi spasmodici ed eroici del genere umano, impegnato fin dalla sua comparsa sulla terra, e in tutto il corso della sua evoluzione, nell’inesausta lotta per la sopravvivenza.
Nei volti di queste figure antropomorfe –a tratti commoventi, a tratti un po’ inquietanti– l’artista polacca ci mostra, con penetrante sguardo psicologico, accanto a questo processo evolutivo (biologico) ancora in corso, il tentativo dell’uomo di conquistare la capacità di rendersi conto di quanto gli stia accadendo e di esprimerlo in qualche modo, di dar voce al proprio smarrimento e sconcerto di fronte a qualcosa che sembra trascendere le umane possibilità di comprensione.
Che cos’è l’uomo? Come si è evoluto nel corso dei millenni? Che cos’è la selezione naturale? Che cosa vi era prima dell’uomo? Quanto dell’istintualità ferina dei suoi progenitori ancora vive ed opera in lui, sotto la fragile e relativamente recente formazione della corteccia cerebrale?
Osservare le sculture di questa giovane polacca è quasi come entrare in un laboratorio di analisi etno-antropologiche centrate sul percorso dell’evoluzione dell’uomo; ma, al tempo stesso, ci si accorge di come la sua fine sensibilità –attraverso una forma di acuta intelligenza emotiva ed empatica– riesca a cogliere, oltre al dato puro scientifico, il vissuto soggettivo di disorientamento e di estraniazione, sorto da scompensi e da lacerazioni interiori che la sovrastante incomprensibilità del destino evolutivo dell’uomo ha ingenerato nell’individuo, e segnatamente nell’individuo più fragile e sensibile.
Sono nate da quest’istanza empatica con il mondo umano e animale alcune delle figure, umanissime, essenzialmente, virtualmente femminili, di Monika Grycko: nei loro sguardi, si avverte lo smarrimento, un senso di solitudine, una percezione della propria fragilità e finitudine e una forma di ripiegamento su di sé che riportano alla memoria quelle illuminanti osservazioni antropologiche sulla complessità dell’anima primitiva di Lucien Lévy-Bruhl, e quelle altrettanto incisive –proprio poiché contribuirono ad approfondire la nostra consapevolezza delle difficoltà di comprendere il mondo psicologico e mentale degli uomini primitivi, così come ad evidenziare l’impossibilità di idealizzare il loro mondo nel mito del buon selvaggio– che furono espresse nei saggi di Claude Lévi-Strauss sull’infelicità dei primitivi.
Ora, naturalmente, l’interpretazione del processo evolutivo della specie umana, espressa nella teoria della selezione naturale, nell’Origine dell’uomo da Charles Darwin, è stata suffragata da molte verifiche sperimentali e ha trovato anche in tempi recenti un’ampia base di consenso scientifico (che, attraverso lo studio sempre più approfondito dell’archeologia del DNA, ne ha esteso, più di quanto si credeva possibile, la portata, pervenendo al riconoscimento dell’esistenza di una parentela della specie umana non unicamente con i primati, ma anche con tutto il genere animale).
Tuttavia, lo sguardo sull’evoluzione dell’uomo non è più quello di Charles Darwin, il quale era veramente orgoglioso di discendere da quell’eroica scimmietta e credeva che il genere umano fosse destinato a progredire verso la perfezione. La nostra, contemporanea visione dell’evoluzione, e più in generale del progresso dell’umanità, ha maturato una prospettiva più consapevole e critica. Scriveva Charles Darwin:
“Se noi non possediamo né albero genealogico, né libro d’oro, né stemmi ereditari, abbiamo, per scoprire e seguire le tracce delle numerose linee divergenti delle nostre genealogie naturali, l’eredità da lungo tempo conservata dei caratteri d’ogni specie […] Noi possiamo concludere con qualche fiducia che ci è permesso di contare su un avvenire di lunghezza incalcolabile. E come la selezione naturale agisce solamente per il bene di ciascun individuo, ogni dono fisico o intellettuale tenderà a progredire verso la perfezione […] Chi abbia veduto un selvaggio nella sua terra nativa, non sentirà molta vergogna se sarà obbligato a riconoscere che il sangue di qualche creatura più umile gli scorre nelle vene. In quanto a me, vorrei tanto essere disceso da quell’eroica scimmietta che affrontò il suo terribile nemico per salvare la vita al suo custode, o da quel vecchio babbuino che sceso dal monte strappò trionfante il suo giovane compagno a una muta attonita di cani, quanto da un selvaggio che si compiace di torturare i suoi nemici, offre sacrifici di sangue, pratica l’infanticidio senza rimorsi, tratta le sue mogli come schiave, non conosce che cosa sia la decenza ed è dominato da grossolane superstizioni.”
Occhi, narici, orecchie e bocca di questi esseri antropomorfi modellati dalle mani di Monika Grycko sono ‘aperti’ alla percezione sensoriale; l’intelligenza, ancora dominata dall’istinto, è racchiusa in un cranio nel quale un cerebro ancora poco evoluto e immaturo si tende al limite delle sue possibilità nel tentativo, tragicomico e intimamente disperato, di comprendere il proprio destino: impresa, quest’ultima, forse costitutivamente impossibile per ogni essere umano, ma della cui complessità e probabile insolubilità questi esseri primitivi non potevano avere alcun sentore.
Solo un uomo che, molti millenni più tardi, abbia assistito alla nascita dentro di sé della coscienza può, infatti, avvertire come anche per la mente scrutatrice più profonda, più acuta e pervicace, quest’ardua impresa di scoprire e rivelare il senso della vita umana sulla terra sia sempre votata allo scacco, poiché strutturalmente troppo complessa e costitutivamente al di là delle potenzialità umane, limitate dal corso del tempo: “Ognuno sta solo / sul cuore della terra / trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.”
Guardando questi volti modellati dalla scultrice, particolarmente quelli disposti in una seriazione, incolonnati come in una genealogia di individui tutti tratti dallo stesso stampo nonostante le piccole, ma significative sfumature individuali, si avverte come non vi sia tempo per leccarsi le ferite né per lenire le sofferenze: il tempo che tutto trasforma e trasmuta incombe, le poche albe date ad ogni individuo volgono già al termine; essi saranno tra breve morti e sepolti, e nuovi esseri perpetueranno la specie, tramandando anch’essi alla prole questi apprendimenti necessari alla sopravvivenza, costati tanti sforzi ai predecessori, senza che se ne possa afferrare il senso ultimo. Scriveva Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici, a voler evidenziare, nella storia del genere umano, quest’assoluta mancanza di senso e di centralità della coscienza individuale, che in tal caso si configurerebbe veramente come una passione inutile: “Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui.”
Nell’opera, dal volto perlaceo riverso, con gli occhi stralunati rivolti in alto e un folle sorriso sulle labbra, forse la scultrice vuole trasmetterci l’intuizione che l’uomo ha di se stesso, della sua transitorietà travolta dal vorticoso scorrere del tempo: l’intuizione di essere egli stesso –intimamente– lucida follia, epifenomeno insorto per caso, senza alcun disegno o fine, nonché forse effimera appendice del mondo animale.
Ecco emergere dalle sculture della giovane artista polacca i volti degli uomini preistorici e degli uomini primitivi, scimmie antropomorfe con la tristezza nello sguardo, bambini già vecchi, gravati da una sorte incomprensibile per loro, e che sembra travalicare non unicamente le loro facoltà cerebrali, ma anche quelle emotive e intuitive: ecco, forse, l’uomo tout court, l’uomo dell’inconscio collettivo, così come esso è in fondo ancora oggi in ogni uomo che si riveli nella sua istintualità primaria, e così come esso ci apparirebbe in tutta la sua preponderanza come motore segreto di quasi tutte le nostre azioni, se solo avessimo la lucidità e il coraggio di vedere e di riconoscere la nostra vera sottesa natura.
Dolore e un senso di desolazione e solitudine, gli stessi emersi nei Tristi tropici di Lévi-Strauss  –l’opera che Emmanuel Lévinas definì essere il testo emblematico a comprendere l’ateismo contemporaneo in quanto non unicamente ateo, ma dominato dall’indifferentismo– sono le percezioni soggettive di questa trasformazione in corso, che lascia dietro di sé coloro che non ce la fanno, coloro che soccombono alle intemperie delle necessarie mutazioni comportamentali e genetiche, alle spietate leggi della natura che perseguono solo la sopravvivenza della specie, incuranti del destino dell’individuo. Scriveva nei Tristi tropici Claude Lévi-Strauss: ”Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso.”
Ecco: forse, ponendoci di fronte a questi volti, che con la loro inespressa, muta espressione sembrano guardarci da un mondo arcano e perduto, il fine e il merito di quest’opera artistica è quello di darci tra le mani uno specchio attraverso il quale ci sia possibile vedere dietro al nostro volto, raffinato nei tratti somatici e razionale nell’espressione, tutto il mistero inespresso dell’essere istintivo e irrazionale sempre minacciato d’estinzione che siamo stati agli albori del genere umano e che dentro di noi, nelle viscere del nostro inconscio, un po’ siamo ancora; con la speranza, forse, che ciascuno di noi si interroghi sul mistero e sul valore della sua umanità  e sulla necessità che sia l’umanità a guidare le nostre azioni e non unicamente la logica –una logica che abbia smarrito la consapevolezza di essere insorta come forma complessa e articolata di un originario schema d’azione per difendere e riaffermare la vita. E, in questo senso, risulta significativo che Darwin stesso volle sottolineare come la forma più evoluta dell’istinto di sopravvivenza, elaborata dalla specie umana nel corso dei millenni, sia la solidarietà umana con i propri simili, espressione matura dell’istinto di protezione del maschio verso la femmina e della femmina verso la prole.
Cecilia Maria di Bona
GALLERIA BIANCA MARIA RIZZI

Via Molino delle Armi, 3 – 20123 Milano – Tel. 02–58314940

">">"> – www.galleriabiancamariarizzi.com


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