Monsterz (MONSTERZ モンスターズ ). Regia: Nakata Hideo. Soggetto e sceneggiatura: Watanabe Yūsuke (da una sceneggiatura di Min-suk Kim); Fotografia: Hayashi Jun’ichirō; Luci: Isono Masahiro; Scenografie: Harada Yasuaki; Suono: Kakizawa Kiyoshi; Montaggio: Aono Naoko; Musiche: Iwai Kenji; Interpreti: Fujiwara Tatsuya (l’uomo senza nome), Yamada Takayuki (Tanaka Shūichi), Ishihara Satomi (Kanae), Ochiai Motoki, Taguchi Tomorowo, Taiga, Miura Masaki; Produzione: Shimoda Atsuyuki per Twins Japan, Warner Bros, NTV; Durata: 112’; Uscita nelle sale giapponesi: 30 maggio 2014.
Link: Trailer - Mark Schilling (Japan Times)
Un uomo storpio e dall’identità sconosciuta, reietto sin dall’infanzia soprattutto a causa di un potere che grava su di lui come una condanna più che come un dono, si guadagna da vivere sfruttando in maniera disonesta la propria capacità di manipolare la volontà delle persone semplicemente con lo sguardo. Il suo potere è tale da consentirgli persino di spingere all’omicidio o al suicidio le proprie vittime, senonché, un giorno, il “mostro” si imbatte per caso in Shūichi, un uomo immune al suo sguardo. Scoprirà in seguito che anche quest’ultimo, come lui, si distingue dagli altri esseri umani a causa di una dote particolare. Ossessionato e intimorito dalla sua incapacità di piegare la volontà di Shūichi, l’uomo senza nome tenta di eliminarlo in ogni modo, incurante delle vite di coloro che lo circondano.
Pur essendosi affermato come autore del fenomeno internazionale Ring (1998) e, di conseguenza, come uno dei principali artefici del recupero e rinnovamento dell’horror tradizionale giapponese (basato su storie di fantasmi e direttamente omaggiato nel pregevole Kaidan), nell’arco della sua carriera Nakata Hideo ha più volte mostrato una particolare predilezione per i territori del thriller, talvolta colorati da sfumature di paranormale. L’occasione di tornare a solcarli gli viene offerta da questo remake del coreano Haunters (2010) di Kim Min-suk, che tra l’altro tratta anche, seppur di sfuggita, temi cari al regista come quello di un’infanzia segnata dalla tragedia e dalla dissoluzione dell’universo familiare. Tralasciando i paragoni con l’originale (che chi scrive non ha visto) ciò che si può dire riguardo all’opera in sé è che il risultato sia purtroppo al di sotto delle aspettative che era lecito nutrire da un film di Nakata, al netto del fatto che la carriera del regista non abbia più conosciuto momenti particolarmente brillanti, dopo Dark Water (2002).
In realtà, prima ancora che a Nakata, i demeriti di Monsterz vanno attribuiti allo sceneggiatore Watanabe Yūsuke, il quale scrive un film che semplicemente non sta in piedi: i temi classici del genere (la vendetta, l’identificazione tra cacciatore e preda, il superuomo ostracizzato dalla società) sono trattati con superficialità disarmante, la struttura dell’opera è un ripetitivo girare a vuoto, numerose tracce narrative vengono lasciate cadere nel nulla, i personaggi di contorno risultano piatti e stereotipati e compiono azioni del tutto prive di senso, sfiorando più volte il ridicolo, al solo scopo di far procedere la storia (si vedano i poliziotti che tolgono la benda al “mostro” su richiesta di questi, con conseguenze naturalmente disastrose; gli agenti che per tutto il film continuano a puntargli la pistola addosso intimandogli di fermarsi pur conoscendo la natura del suo potere; i due energumeni che, svanito l’influsso del manipolatore, si lasciano rinchiudere in uno sgabuzzino da Shūichi, fisicamente assai meno dotato di loro).
Persino la figura del villain, un personaggio tragico e tormentato non privo di aspetti potenzialmente interessanti, non viene approfondita a dovere, e non si eleva mai dall’immagine opaca di un uomo senza nome e senza identità, le cui azioni sono guidate unicamente dai propri traumi infantili, interpretato da uno zoppicante Fujiwara Tatsuya, il quale trascorre l’intero film a sgranare gli occhi digitalmente colorati di azzurro, mimando sforzi immani sul proprio volto. Un velo pietoso va steso infine sui rovinosi tentativi di inserire anche un registro comico, veicolato dai personaggi-macchietta dei due amici di Shūichi.
Visto il materiale di partenza, Nakata fa quel che può, e cerca di nasconderne l’inconsistenza ammantandolo sapientemente con le sue tipiche atmosfere cariche e opprimenti che, come al solito, ben miscelano l’orrore dell’ignoto e il pathos che sgorga da situazioni familiari drammatiche. Notevoli anche le scene nelle quali l’uomo senza nome sfoga il suo potere su gruppi, o addirittura folle, di persone. Se si eccettuano i movimenti da automa delle vittime, alquanto stereotipati, questa manciata di scene regala, grazie a coreografie particolarmente suggestive, i momenti migliori del film. Forse gli unici che valga la pena di vedere. [Giacomo Calorio]