Magazine Cinema

Monte Hellman

Creato il 14 aprile 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

le_colline_blu_00

Su questa pagina si è più volte tornati a parlare di certi personaggi e di maniere analoghe di affrontare il West da parte di certi autori. Nomi come Burt Lancaster, Steve McQueen, Robert Aldrich, Richard Brooks, John Sturges e Ralph Nelson sono degli habitué di questa rubrica. Inoltre, per quelle mosche da saloon che sono state attente, numero dopo numero, si è andati a creare un cerchio di fuoco intorno ad un momento storico preciso, una fase di transizione imprescindibile. Quel momento in cui il sistema hollywoodiano classico, arrivati nel cuore sanguinoso degli anni sessanta, ha ceduto dinanzi ad una nuova generazione di film-maker nonché di spettatori vogliosi di un cinema che rappresentasse la cruda realtà che l’America stava attraversando. Il western, come i musical, era un genere, già a partire dalla prima metà del decennio, percepito come “vecchio”, figlio di padri obsoleti e guerrafondai. Il western italiano, con il suo cinismo e la sua violenza, così come certi autori americani (Aldrich e Penn ad esempio) che in questa nuova visione della cose trovarono pane per i loro denti, riuscirono a riadattare il western infarcendolo di nuovi significati. La contaminazione divenne un punto cardine del “new Hollywood western”. Del resto, più volte è stato ribadito che il western è uno stato mentale e non un genere storico. Il West è territorio di metafore e allegoriche fiabe di sangue e polvere. Easy Rider è un western così come John Carpenter è un regista western. Nel primissimo numero di Dust, nell’introdurre la rubrica, fu menzionato fugacemente un regista contraddittorio e sopravalutato, povero e cinefilo.

“Grazie alla sua presenza al festival di Venezia – eravamo nel 2010 – dove ha presentato Road to Nowhere, si è timidamente ripreso a parlare di un regista troppo spesso ghettizzato, Monte Hellman, autore di due piccoli western ruvidi e pregni di simbologie: Le Colline Blu (1965) e La Sparatoria (1967). Oltre alla presenza di un giovane Jack Nicholson, queste due pellicole hanno in comune una forte dose di misticismo, e rientrano nel già citato filone del western “in acido” che vedeva nel genere lo spazio e il modo per poter raccontare personaggi fortemente difettosi, tristi e introspettivi, che rappresentano alla perfezione la società americana del periodo, disillusa e allo sbando. Hellman dimostra di conoscere il genere, mantenendo un gusto per l’epico tutto americano, ma guardando anche, e soprattutto, all’Italia, con un utilizzo assolutamente sperimentale del montaggio e un uso talvolta psichedelico dei contrasti cromatici. Un cinema cinefilo, cinico e polveroso quello di Hellman.”  Bene, è giunta l’ora di chiudere il cerchio…

la_sparatoria

Nella filmografia di Monte Hellman si contano tre western “puri”: Le colline blu, La sparatoria e Amore, piombo e furore. Ma c’è una distinzione sostanziale da fare. I primi due, girati back-to-back nel ’65, sono tra i film più rappresentativi del regista; il terzo, che arriverà molti anni più tardi (1978), ha invece una nascita più “casuale”, che lo distanzia dal discorso sia concettuale che visivo che unisce indissolubilmente i due lavori precedenti. Il noto critico americano Leonard Maltin, in particolare, individua i due film “gemelli”, e soprattutto La sparatoria, come i primi acid-western della storia del cinema USA. Il termine acid-western fu coniato da Jonathan Rosenbaum in una recensione per il capolavoro Dead man di Jim Jarmusch nel ’96. Negli anni a seguire, il termine verrà utilizzato per indicare un sotto-genere del western che, con un’impostazione riconducibile ai classici di Ford ed Hawks, combina gli eccessi cromatici e le derive violente del western italiano con i forti contenuti legati alla sperimentazione della controcultura del periodo. I protagonisti rappresentano metaforicamente un’America bianca, autodistruttiva e allo sfascio, lacerata dalla guerra in Vietnam e da una classe politica percepita come lontana dalla volontà del popolo. In effetti, le storie secche e minimaliste, asciugate nei dialoghi in fase di lavorazione dallo stesso Hellman, sembrano nascere dalle psichedeliche pagine di Rudy Wurlitzer, scrittore, e più in là anche sceneggiatore (non a caso di Peckinpah per Pat Garret e Billy the Kid), ritenuto da molti l’inventore letterario del genere.

Tornando alla doppietta di Hellman, Le colline blu, il secondo film ad essere realizzato, ma il primo a vedere il buio della sala, ruota intorno ad un trio di cowboy (Cameron Mitchell, Jack Nicholson e Tom Filer), fermatisi a passare la notte nel remoto nascondiglio di una banda di fuorilegge, capeggiati da Harry Dean Stanton. Il film è co-prodotto e scritto da Jack Nicholson, nel periodo in cui l’attore stava cercando di imporsi anche come sceneggiatore in progetti cormaniani. Ne La sparatoria, invece, il protagonista è un ex cacciatore di taglie (Warren Oates) che accetta, insieme ad un compagno, di fare da guida ad una donna che vuole attraversare il deserto in cerca di un nome e di una vendetta. Appare anche stavolta Nicholson, che, rinunciando al ruolo di sceneggiatore, qui si ritaglia il piccolo ruolo di un misterioso killer che segue a distanza i tre. Il film porta la firma di Carole Eastman (sotto lo pseudonimo di Adrien Joyce), ex modella e ballerina, che qualche anno più tardi, con Cinque pezzi facili, capolavoro di Bob Rafelson, si aggiudicherà una nomination agli Oscar. La decisione di realizzarli uno appresso all’altro nasce su Vine Street, ad uno dei Derby Brown – storica catena di ristoranti al sud di Hollywood Boulevard – durante un pranzo di lavoro tra Hellman e Corman per parlare dell’idea di realizzare un western. Come ha raccontato più volte lo stesso Hellman, alla fine del pasto, Corman, alzandosi disse “Mi piace! Facciamone due!”. Girato nello Utah, e con solo una settimana di pausa per la troupe a dividere i due film, l’intera operazione venne a costare circa 150.000 $.

The Shooting

Nonostante l’esiguo numero di western da lui diretti nella sua non prolifica carriera (soprattutto se si scartano tutte le regie non accreditate), Monte Hellman è considerato da molti un regista western. La ragione per questo è che lui, al contrario di altri autori di genere, che pur mantenendo un loro stile riconoscibile si adattano al filone di turno, in maniera quasi estrema stampa il suo ritmo lento e la sua macchina statica a qualsiasi genere si trovi a fare. Il ritmo hellmaniano, che appartiene più a Bresson (non a caso i suoi western sono stati esageratamente associati al regista francese) che ad un Corman, se si trova fuori contesto in un horror o in un thriller, al contrario si incastona perfettamente con le lande e i tempi naturalmente dilatati del western. Si potrebbe quasi arrivare a dire che Hellman abbia solo fatto western, e che tutti i suoi personaggi popolano una sorta di astratto west, una landa dove il tempo scorre lentamente, popolata, come in una vecchia canzone di Cohen, da tristi figure silenziose. “A bunch of lonesome and very quarrelsome heroes were smoking out along the open road; the night was very dark and thick between them, each man beneath his ordinary load. “I’d like to tell my story.” (…) But no one really could hear him, the night so dark and thick and green…” Non è strano poter pensare che tra questi “eroi” solitari che vagano nella notte in cerca di qualcuno a cui raccontare la loro storia, con la speranza vacua di alleggerire il peso che si portano sulle spalle, ci sia il volto di Frank Mansfield nascosto sotto il suo cappello bianco di paglia, con una sigaretta tra le dita, lo sguardo un po’ stordito e il sorriso paraculo di Warren Oates. O che una delle sagome che si intravedono al di là della nebbiolina notturna, tra il verde e il nero, appartenga a Billy Spear, che cammina affianco al suo cavallo, la camicia a righe sporca di polvere e il viso ancora implume, ma già solcato dalla vena di follia di Jack Nicholson. Non è difficile immaginare che la notte descritta da Cohen sia popolata anche dai personaggi di Monte Hellman. Del resto, il cantautore sembra descrivere figure molto simili a quelle del regista newyorkese: perdenti, “loser” cronici, falsi eroi

le_colline_blu
Dinanzi al suo cinema, molti critici e cinefili, però, sembrano perdere razionalità, difendendo a spada tratta tutti e dodici i film da lui firmati, arrivando a sviscerare e a ricercare criptici significati persino nel suo Silent night, deadly night 3 (1989). Brad Stevens, nella monografia da lui scritta sul regista (Monte Hellman: His Life and Films), parla di questo horrorino in termini di “senso di progressione dinamica”, tirando in ballo anche la femminist film theory, senza rendersi conto di scadere nel ridicolo. Hellman, che mosse i primi passi nel teatro, fin dal suo esordio con The beast from the haunted cave (1959) (per il quale  sostiene di essersi ispirato a L’isola di corallo di Huston), sembra non essersi mai interessato al genere, che nelle sue mani sembra diventare piuttosto una gabbia restrittiva. Piani sequenza di 80, 90 secondi, macchina fissa su un volto per 3-4 minuti, ma, soprattutto, come nel caso di Strada a due corsie, prediligendo progressivi e minimi spostamenti di macchina, la rinuncia al montaggio, lo strumento maestro del cinema occidentale, talvolta unito ad una totale assenza di accenni musicali. Un modus operandi che nelle mani di Hellman finisce per annientare il genere, rendendolo superfluo rispetto al “come”, uno stile che sembra trovare il suo giusto collocamento solo nel western. Sarà proprio questa mancanza di “flessibilità” la rovina del regista: quando ebbe, per la prima ed unica volta, la possibilità di entrare a fare parte del “big league”, il tutto gli scoppiò tra le mani. Con Strada a due corsie (1971) aveva un budget consistente, uno script che la rivista Esquire definì il migliore dell’anno, un cast importante e una major alle spalle: quella fu la fine. La Universal si trovò tra le mani un film la cui vena sperimentale prendeva il sopravvento su tutto, e scelse di distribuirlo in sordina. Da allora Hellman non ha più avuto una vera e propria carriera, ha cercato di mettere su progetti che regolarmente sono caduti come un castello di carte, il che ha reso i suoi due western la summa massima della sua poetica ad oggi. Nel genere americano tradizionale il west è visto come una landa piena di opportunità che può schiacciare, ma può anche portare alla redenzione. Nelle due pellicole di Hellman, invece, rappresenta la strada verso la morte. La società è un incubo da cui non ci si risveglia, e i suoi finali nichilisti e strazianti, da questo punto di vista, parlano chiaro. In un certo senso, è facile voler bene al cinema di Hellman: nulla, talvolta, spinge ad amare un film come l’imperfezione. Nei suoi piccoli ed esasperati film, spesso oppressi dal peso di una pretenziosità autoriale fuori posto e fuori controllo, c’è un po’ di tutto: il fascino del fallimento, il genere, l’artigiano e l’autore, la sperimentazione, la nostalgia, guizzi di genialità, attimi di sciattezza e volti e nomi di una generazione di cineasti ormai lontani. Ad Hellman, il regista-ombra più ostinato e incompiuto del cinema americano, verrebbe da fare una richiesta, come alla fine della prima strofa della canzone di Cohen: and some of us are very hungry now to hear what it is you’ve done so wrong…

Prossima puntata: Joe Kidd

Eugenio Ercolani


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :