Dopo le leggi ad personam, le leggi ad favorem. Ci si chiedeva come mai ci fosse tanta segretezza intorno ai magici effetti, per le magnifiche sorti e progressive del paese, delle liberalizzazioni. I più ruspanti si domandavano: ma quanto ce costa e quanto ce se guadagna? Pensavamo fosse sobria riservatezza, speravamo ci riservassero una bella sorpresa. Invece forse era un barlume di imbarazzato pudore.
Nel decreto sulle liberalizzazioni è prevista l’eliminazione dell’obbligo di applicare i Contratti Collettivi di settore nel trasporto Ferroviario, un favore per niente austero e molto munifico, come i rolex d’oro di Berlusconi, fatto all’unico concorrente pronto alla partenza, Montezemolo che grazie alla deregulation si troverà nel suo desiderato far west. Ma purtroppo senza ombre rosse: pare che la nostra redenzione sia affidata solo ai tassisti, ultimi moicani prima della riserva.
La strategia della crescita europea si sviluppa con le misure salva banche e la strategia salva Italia anche con interventi pensati dai capitani che non abbandonano la nave in modo da favorire gli amici potenti che ci guadagneranno dal relitto.
Forti della paura della recessione che ci hanno instillato, così da non farci accorgere che ci siamo già dentro, accecati dall’yubris liberista, pensano di poter infrangere ogni tabù senza doverne pagare le conseguenze, schiacciando i sindacati e la rappresentanza e contemporaneamente schiacciando il lavoro e i suoi diritti. Così anche Trenitalia potrà diventare terra di scorrerie padronali come la Fiat. Ma la punizione delle garanzie deve essere esemplare, se la copertura dell’articolo 18 che garantisce al lavoratore ingiustamente licenziato il reintegro non riguarda più chi è occupato in aziende con oltre 15 dipendenti ma soltanto quelli che lavorano in società con più di 50 dipendenti. Di modo che sarà sufficiente che due o più piccoli aspiranti padroncini in cachemere si fondano ed ecco fatto il miracolo.
Certo un po’ di pudore lo conservano, mica dichiarano di voler fare piazza pulita dei diritti e delle conquiste, macchè. Si tratta misure necessarie, di quelle che piacciono anche alla madrina della strage delle regole di tutela dei lavoratori in terra straniera, realistici e necessari incentivi volti a ridurre la frammentazione del nostro sistema produttivo e a assicurare produttività e efficienza. Produttività, efficienza, sviluppo pare non abbiano nulla a che fare coi lavoratori, la loro sicurezza, la loro dignità, che così ridiventeranno un’appendice alla macchina, un ostaggio ricattato e ricattabile. E non deve riguardare neppure i sindacati che dovrebbero ragionevolmente trasformarsi in cani da guardia dell’azienda, sottoscriverne i diktat e poi li imporli alla «manovalanza», punendo chi trasgredisce. Lasciando così libero il sovrano di scavalcare oceani e regole alla ricerca di geografie più indulgenti e generose, di rappresentanze più arrendevoli, di lavoratori più deboli. E non deve riguardare nemmeno i cittadini che possono stare tranquilli: il salto ad ostacoli per superare lacci e lacciuoli rappresenta una indispensabile razionalizzazione, per una crescita ordinata e moderna. È vero, le classi si sono profondamente rimescolate, l’operaio di fabbrica del mondo industrializzato palesemente non sarà il soggetto della trasformazione e del superamento del capitalismo. Ma in compenso, la polarizzazione tra ricchezza e miseria a livello planetario si è approfondita e irradiata sull’intero pianeta. La lesione dei diritti che è poi la ferita aperta di una democrazia sfibrata e minacciata, non è affare solo italiano e non è affare degli operai, 15, 50, della Fiat, dell’Omsa, delle ferrovie. È affare nostro.