Le strofe che ricordo a metà, che mi vergogno a cantare ad alta voce perché non ci arrivo, mi suggeriscono cosa guardare, mi diconono cosa guardare, mi consigliano da cosa lasciarmi affascinare e tra le mostre che potevo andare a vedere e che ho visto, e tra i negozi in cui potevo sospirare e in cui ho sospirato, ho deciso di andare a passeggiare al Monumentale, quando, dove meno potevo aspettarmelo, il primo raggio di sole dell’anno è arrivato sul letto attraversando la finestra.
Sono andata a farmi passeggiare dal Monumentale dove trovi Montale, a sentire il peso degli stivaletti sul terreno compatto riemerso dalla neve, a leggere i nomi sulle lapidi, i cognomi altisonanti, i titoli per tenere ben misurate le distanze tra loro e me, a ricordare il nome di Thea e basta, solo il nome e qualche fiore rosso che spuntava dalla terra e quindi da lei, in una giornata grigia e luminosa di agosto al cimitero di Stoccolma.
E le suggestioni sono frivole e devono esserlo e la strada ti porta nei posti dove ti sembra di essere già stata, per come li conosci, per le persone che vedi, per quello che mangiano e per quello che dicono e pranzare da sola, senza nessun tipo di corazza, non crea disagio.
Milano si lascia attraversare le viscere e sei sotto il duomo bianco che occupa il suo spazio specifico ritagliando il cielo coi i suoi contorni acuminati, e sei sotto il bosco verticale che svetta ancora privo di vita nella foschia della sera mentre le due voci che ti risuonano nella testa da due giorni, guardano nella stessa direzione solo nel senso opposto, indicando i cantieri.
Milano sono le mostre che poi sono pretesti per abbracciare, bere, abbracciare e dire come stai e venite a cena da noi.
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